Se la Corte Costituzionale rifiuta di far di conto
Istituzioni ed economia
La vicenda a tratti ha dell'incredibile. Nel luglio 2012, il governo tecnico guidato da Mario Monti approvava un decreto-legge di razionalizzazione della spesa – la famigerata spending review – con cui venivano ridotti i trasferimenti ai comuni per 2,2 miliardi di euro, sulla base della media del triennio precedente dei consumi intermedi degli enti. Erano i mesi difficili della bufera finanziaria contro il debito sovrano italiano, a giugno Monti aveva chiesto e ottenuto dal Consiglio Europeo (nella notte in cui Mario Balotelli segnò una doppietta alla Germania nella semifinale europea) la creazione di quel Fondo Salva-Stati che rassicurò i mercati sulla solvibilità italiana, in cambio di un percorso di austerità fiscale e di risanamento già intrapreso con la severa Legge di Stabilità per il 2012.
L’alternativa quale sarebbe stata? La richiesta di aiuto al Fondo Monetario Internazionale, la cessione delle redini della politica economica alla “troika”: insomma, il commissariamento dell’Italia. Passano quattro anni e scopriamo che, secondo l’interpretazione della Corte Costituzionale, quel taglio da 2,2 miliardi all’anno sarebbe illegittimo perché il Ministero degli Interni, nel quantificare le riduzioni per ogni singolo ente locale, non avrebbe coinvolto gli enti stessi attraverso la Conferenza Stato-Città. Inoltre, secondo i giudici, applicare delle riduzioni di trasferimenti statali ai Comuni mediante il criterio dei consumi intermedi sarebbe penalizzante per l’effettiva erogazione di servizi pubblici ai cittadini.
Insomma, in virtù di questa recente sentenza, se governo e parlamento intendono ridurre le risorse statali assegnate ai Comuni (e allo Regioni, vale lo stesso principio) debbono necessariamente coinvolgerli nella decisione. A nulla vale l’argomento secondo cui quella riduzione di spesa necessaria e urgente ha evitato al Paese guai peggiori e, di certo, una più grave compressione dei diritti di cittadinanza di tutti gli italiani. Non è la prima volta che la Corte Costituzionale pare non includere nelle sue valutazioni alcun principio di razionalità economica, a cominciare da quello di realtà: nessun servizio pubblico è davvero garantito, in assenza delle risorse necessarie ad erogarlo.
E’ evidente che la decisione assunta dalla Corte renderà estremamente difficile ogni futura azione di revisione della spesa pubblica degli enti territoriali. Per anni abbiamo promosso e auspicato un autentico federalismo, in cui ogni livello di governo fosse tenuto a reperire autonomamente (tramite la propria imposizione fiscale, sulla quale i cittadini lo avrebbero valutato) le risorse necessarie a coprire le proprie spese. Oggi la Corte ha di fatto imposto un federalismo alla rovescia: lo Stato paga, assumendosi la responsabilità di tassare i contribuenti, ma gli enti che spendono hanno il diritto costituzionale (desunto dove, non è dato sapersi) di partecipare alla decisione sul quantum della loro spesa. Inutile aggiungere che, in questo federalismo alla rovescia, gli amministratori di Comuni e le Regioni non hanno alcun interesse – se non quello patriottico, per chi ce l’ha - ad assecondare le esigenze di razionalizzazione dello Stato centrale.
Se è lo Stato che tassa e il Comune che spende, l’elettore chiede meno tasse allo Stato, ma più spesa al Comune: è il cortocircuito democratico di un paese che continua a pasticciare con le prerogative dei diversi livelli di governo e che, soprattutto, ha una Corte Costituzionale che si rifiuta di far di conto.