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Domenica 31 marzo gli elettori ucraini si recheranno alle urne per eleggere il nuovo inquilino della Bankova. Le elezioni presidenziali, a detta di tutti gli analisti politici le più incerte degli ultimi 28 anni, sono il primo appuntamento di una lunga stagione elettorale che si concluderà in autunno con il voto per il rinnovo della Verkhovna Rada, il parlamento monocamerale ucraino.

Ho usato volutamente l’espressione “lunga stagione elettorale” perché a differenza delle elezioni del maggio 2014, che incoronarono Petro Poroshenko al primo turno con quasi il 55% dei consensi, questa volta, per stabilire chi guiderà l’Ucraina nei prossimi cinque anni sarà probabilmente necessario ricorrere al ballottaggio, fissato per il 21 aprile. Inoltre, quando il settimo presidente ucraino si insedierà ufficialmente alla Bankova (l’inaugurazione ufficiale è prevista per il 3 giugno), sarà già iniziata di fatto la campagna elettorale per le elezioni parlamentari.

L’incertezza sull’esito finale del voto e sui nomi dei due candidati che si sfideranno al secondo turno non sono peraltro le uniche novità di questa tornata elettorale. Lo scenario socio-economico e geopolitico, profondamente mutato a causa della guerra in Donbas, dell’annessione della Crimea da parte della Federazione Russa, del progressivo avvicinamento di Kyiv all’Europa e all’Alleanza Atlantica e della riconosciuta indipendenza della Chiesa Ortodossa Ucraina da Mosca sancita dal Patriarca di Costantinopoli nel dicembre 2018, ha finito per rimodellare la dialettica politica e le categorie concettuali finora utilizzate per analizzare la politica ucraina.

L’affermarsi su scala mondiale dell’onda populista ha ridisegnato, anche a Kyiv, le agende politiche di partiti e movimenti. In un Paese in guerra con la Russia, le formazioni un tempo legate a Mosca, costrette obtorto collo ad un’operazione di mimesi per limitare l’emorragia di voti, stanno adottato strategie di marketing elettorale diverse dal passato.

Per molto tempo siamo stati abituati in Italia ad analizzare le elezioni ucraine attraverso il semplicistico, nonché fuorviante, paradigma Est/Ovest che vedeva contrapposti un elettorato russofilo situato prevalentemente nelle regioni orientali e un elettorato europeista proveniente dalle regioni occidentali e specularmente un’offerta politica caratterizzata da due piattaforme una con candidati filorussi, l’altra con candidati filoeuropei.

La questione è ovviamente più complessa. I flussi e le dinamiche elettorali sono influenzate dalla contrapposizione città/campagna, dal peso politico dei diversi gruppi oligarchici nelle varie oblast, dal grado di ‘desovietizzazione’ dell’elettorato e da altri fattori oltre a quelli etnico–linguistici.

Prima di occuparmi in dettaglio, in un articolo in uscita la prossima settimana sempre su Strade, dei diversi candidati che si contendono la Presidenza Ucraina nel 2019, ritengo utile passare in rassegna quanto accaduto in passato per evidenziare il progressivo, seppure lento, processo di emancipazione del Paese dall’eredità sovietica.

Alle prime elezioni presidenziali, tenutesi nel dicembre 1991 contestualmente al referendum confermativo dell’indipendenza proclamata il 24 agosto dello stesso anno, assistiamo allo scontro tra un ex uomo della nomenclatura sovietica, Leonid Kravchuk, e due ex dissidenti: Vyacheslav Chornovil e Levko Lukyanenko. La spunta al primo turno con il 62% dei voti Kravchuk sconfiggendo con ampio margine sia Chornovil (23%) sia Lukyanenko (4.5%).

La vittoria di Kravchuk, ex Direttore del dipartimento di Propaganda e mobilitazione del Comitato centrale del Partito Comunista Ucraino, è il frutto di un’abile campagna elettorale in cui l’ex apparatchik si focalizza sui temi dell’indipendenza economica enfatizzando l’idea dell’Ucraina come granaio d’Europa che sfama la Russia e le altre repubbliche sovietiche. Con l’indipendenza – a detta di Kravchuk – gli standard di vita ucraini, già all’epoca superiori a quelli della Russia, sarebbero ulteriormente aumentati. La campagna elettorale di Kravchuk è in buona sostanza una campagna per il sì al referendum a favore dell’indipendenza da Mosca.

Provenendo dai ranghi del partito comunista, Leonid Makarovych riesce a conquistare anche l’elettorato russofono dell’Est e della Crimea che non avrebbe mai votato per Chornovil, ex leader del Rukh, considerato troppo nazionalista.

Tre anni più tardi si torna di nuovo alle urne. La presidenza Kravchuk (1991-1994), che si caratterizza per la ricerca di soluzioni a pressanti questioni di politica internazionale come quelle relative a nazionalità, territorialità e armi nucleari con la Russia, determina una paralisi della politica interna che blocca il passaggio dall’economia pianificata sovietica a quella di mercato e la trasformazione politico-istituzionale, ovvero lo smantellamento dell’apparato ereditato dall’URSS e la nascita di un sistema pluripartitico.

A determinare il voto presidenziale anticipato è la grave crisi economica causata dalla mancata transizione al libero mercato (nel 1993 il tasso di l’inflazione è il 10.200%) e alla rottura dei legami con la Russia. Il 10 giugno 1994 al ballottaggio Leonid Kuchma sconfigge Leonid Kravchuk e viene eletto secondo Presidente dell’Ucraina.

La sconfitta di Kravchuk è imputabile fondamentalmente a due fattori: la crisi economica che ha abbassato drammaticamente lo standard di vita della stragrande maggioranza dei cittadini, e il suo essere percepito dalle popolazioni russofone dell’Est come troppo nazionalista e da quelle dell’Ovest come un nazionalista solo di facciata, scontentando sia chi vorrebbe legami più stretti con Mosca, sia chi reclama la nascita di uno stato ‘desovietizzato’ che possa presto entrare a far parte del novero delle democrazie europee.

Ma il vero motivo per cui al secondo turno il 52% degli ucraini sceglie Kuchma è perché scommette sulla sua capacità di fare uscire il Paese dall’impasse economica in cui è precipitato con il crollo dell’URSS. Un anno dopo l’insediamento di Kuchma le riforme economiche, che nei primi mesi sembravano marciare spedite, si sono già arenate. Uno stop che non sorprende affatto visto che l’elezione dell’ex direttore della fabbrica di missili Yuzhmash di Dnipropetrovsk, è avvenuta grazie al voto dell’Est russofono e al supporto fondamentale dell’ex Partito Comunista.

Con Kuchma l’Ucraina inaugura una politica multivettoriale tra Bruxelles, Washington e Mosca che si rivelerà fallimentare perché ritarderà le riforme strutturali (nell’economia, nella pubblica amministrazione, nella difesa, nell’agricoltura) necessarie per modernizzare il Paese e favorirà di fatto gli interessi delle rapaci oligarchie dell’Est, in primis i clan di Donetsk e Dnipropetrovsk, confinando l’Ucraina in un pernicioso limbo geopolitico.

Alle elezioni del 1999, nonostante una popolarità in netto calo, Kuchma riesce comunque a conquistarsi un secondo mandato. Grazie al supporto di alcuni oligarchi, principalmente Viktor Medvedchuk, Ihor Bakai e Viktor Pinchuk, che gli garantiscono cospicui finanziamenti e una efficace copertura sui più importanti media, Kuchma sconfigge al secondo turno Petro Symonenko, rozzo stalinista di Donetsk, giocando sullo spauracchio del ritorno al governo dei comunisti legati a Mosca.

È interessante notare che nel 1994 Kuchma si presenti come il candidato filorusso, mentre cinque anni più tardi, con la scomparsa in un incidente stradale, dalle circostanze mai chiarite, di Chornovil, il candidato del Cremlino sia Symonenko. 

La seconda, disastrosa presidenza Kuchma – in politica interna il Presidente non ha più la forza per fare da arbitro tra i vari clan oligarchici e deve piegarsi alla volontà di quello di Donetsk, in politica estera i rapporti con UE e Stati Uniti sono ormai ai minimi storici a causa di gravi scandali internazionali che lo vedono coinvolto – schiuderà le porte, grazie anche all’attivarsi della società civile, alla Rivoluzione Arancione. Nel novembre 2004 la gente scende infatti in piazza per denunciare i brogli elettorali effettuati dall’amministrazione di Kuchma e dal clan del Donbas, per far vincere il candidato sponsorizzato da Mosca e da Donetsk, Viktor Yanukovych.

Dopo settimane di proteste, il 3 dicembre 2004 la Corte Suprema Ucraina annulla la consultazione del 21 novembre, riconoscendola viziata da brogli, e ordina la ripetizione del ballottaggio per il 26 dicembre che verrà vinto da Yushchenko con il 51,2% dei voti contro il 44,2% di Yanukovych.

Sul piano politico gli anni arancioni (2005-2010), carichi di aspettative, si riveleranno piuttosto deludenti. Le continue diatribe tra il Presidente Yushchenko e la premier Tymoshenko, i conflitti tra parlamento, esecutivo e Presidente, e i tanti compromessi minano sin dall’inizio l’agenda riformista tratteggiata da Yushchenko al momento di insediarsi alla Bankova. 

Ciononostante la Rivoluzione Arancione segna uno spartiacque fondamentale nella storia del Paese. Per la prima volta dalla dichiarazione d’indipendenza del 1991 gli ucraini intuiscono che possono essere loro stessi gli agenti di cambiamento della storia. Dello slogan arancione Razom nas bohato, l’unione fa la forza, sintomo di una società civile ormai matura, faranno tesoro nove anni più tardi gli attivisti del Maidan che nel febbraio 2014 rovesceranno con le proteste di piazza il regime cleptocratico di Yanukovych.

Yanukovych, dopo aver vinto per una manciata di voti nel febbraio 2010 le elezioni presidenziali, sconfiggendo al secondo turno l’ex premier arancione Yuliya Tymoshenko, ha infatti instaurato un regime mafioso che, oltre a svendere gli interessi nazionali a Mosca, nella sua fase finale arriverà persino a sparare sulla propria gente. Quando il 25 maggio 2014 gli elettori ucraini tornano di nuovo al voto per scegliere il proprio Presidente, l’Ucraina del post-Maidan è un Paese profondamente cambiato.

Nonostante la rivolta popolare abbia sconfitto il regime cleptocratico di Yanukovych, la volontà del popolo ucraino di lasciarsi alle spalle l’epoca post-sovietica e il desiderio di aprire una nuova fase della sua Storia devono fare i conti con l’ostilità di Mosca. Cinque giorni dopo la fuga di Yanukovych avvenuta il 22 febbraio 2014, Putin invia il primo contingente militare in Crimea, annettendo de facto, in data 16 marzo, la penisola ucraina alla Federazione Russa attraverso un ‘referendum’, imposto con uso della forza, brogli, intimidazioni e in violazione del Memorandum di Budapest del 1994.

La timida risposta di UE e Stati Uniti all’annessione della Crimea, ossia l’imposizione di sanzioni economiche nei confronti di Mosca, non riduce a più miti consigli l’atteggiamento belligerante del Cremlino che, dopo l’invasione della penisola ucraina, invia militari e proxy in Donbas aprendo di fatto un fronte di guerra nel profondo Est dell’Ucraina.

Alle elezioni del maggio 2014 la vittoria al primo turno di Petro Poroshenko (54,7%), che si impone con un netto divario su Yuliya Tymoshenko (12,8), è dovuta anche all’abilità del “re del cioccolato” nel veicolare un’immagine di leader forte, sicuro e decisionista. ‘Un nuovo modo di vivere’ è lo slogan adottato da Poroshenko per una campagna elettorale fondata essenzialmente su due temi: la scelta di campo europeista e la lotta alla corruzione.

Un approccio, ‘centrista’ e moderato, che, rifuggendo sia i metodi autoritari di Yanukovych sia, per dirla con le parole dell’intellettuale ucraino Mykhailo Dubyniansky ‘il tribalismo della Galizia e del Donbas’, convince anche gli elettori più critici. Alcuni finiscono per votarlo, magari turandosi il naso, per evitare l’alea del secondo turno e garantire stabilità a un Paese in guerra che ha bisogno al più presto sia del Capo delle Forze Armate sia di ricostruire un esercito distrutto dalle scellerate politiche di Yanukovych.

L'annessione della Crimea e l'occupazione del Donbas hanno trasformato il voto del 2014 in una sorta di scommessa su quale leader avrebbe meglio difeso l’Ucraina dalla guerra ibrida scatenata da Mosca. A distanza di cinque anni la situazione è cambiata di nuovo. Il perdurare del conflitto con la Russia e un generale senso di disaffezione e di sfiducia verso la politica, strumentalizzato ad arte dai movimenti populisti e filorussi, hanno creato un clima di estrema incertezza sull’esito finale del voto.

Al primo turno, a detta dei sondaggi, nessuno degli oltre 40 candidati, registrati ufficialmente per la competizione, gode di un consenso pari al 20%. In questo contesto, indubbi successi dell’attuale Presidenza, quali la firma dell’ Accordo di Associazione con la UE, la stabilizzazione dell’economia (a partire dal 2016 il PIL è tornato a crescere), le riforme nel settore energetico, bancario e sanitario, l’introduzione del sistema di e-procurement ProZorro che garantisce maggiore trasparenza nel sistema degli appalti, la formazione di un esercito efficiente e professionale, potrebbero non essere sufficienti a garantire a Petro Poroshenko un secondo mandato.