Un economista francese scrive un best seller nel quale sostiene che le diseguaglianze economiche non solo stanno tornando ai livelli di un secolo fa, ma che sono destinate ad aumentare fino a paralizzare la democrazia. E che per invertire la tendenza bisognerebbe mettere in campo politiche redistributive. Quanto basta per far scoppiare un caso planetario.

de luca - Copia

Immaginate di essere un politico americano, un repubblicano, vicino al Tea Party. Uno di quelli che pensano che qualunque intervento dello stato nell’economia è peggio di un disastro: è un attentato alla vostra libertà personale. Ora immaginate che nel pieno del dibattito che state portando avanti contro le politiche di Obama venga pubblicato un libro in cui un economista molto famoso argomenta con una miriade di dati e dettagli che le diseguaglianze economiche non solo stanno tornando ai livelli di un secolo fa, ma che sono destinate ad aumentare fino a paralizzare la democrazia. E in cui propone di introdurre una tassa globale per colpire la ricchezza che voi e i vostri amici avete faticosamente accumulato. Immaginate che questo libro diventi un best seller mondiale. E immaginate anche che il suo autore, per di più, è un francese (per la destra americana, i francesi sono un popolo appena più liberale dei nordcoreani; quando un senatore repubblicano venne a sapere dei piani per salvare le banche con soldi pubblici nel 2008 commentò: “Mi sembra di essermi svegliato in Francia”).

Se riuscite ad immaginarvi uno scenario del genere, allora avrete una vaga idea del perché da più di un mese oramai non si parla d’altro che del Capitale nel 21° secolo, il libro dell’economista francese Thomas Piketty. E potete immaginare come mai negli ultimi giorni le critiche che il Financial Times ha fatto ai dataset del libro hanno attirato così tanta attenzione. Partiamo dalla fine di questa storia e cerchiamo di capire cosa sta succedendo.

 

Le critiche del Financial Times

Venerdì 24 maggio, Chris Giles, caporedattore economico del Financial Times, ha pubblicato un articolo in cui indicava alcuni apparenti errori nelle tabelle di dati che accompagnano Il Capitale nel 21° secolo, il best seller economico di Piketty. Nell’ultima settimana nel mondo accademico dell’economia non si è parlato d’altro. Secondo alcuni, Giles ha dimostrato che Piketty è un imbroglione che ha barato con i dati per ottenere il risultato che preferiva. Secondo altri è il Financial Times ad aver fatto delle critiche senza capire i metodi con cui Piketty ha raccolto ed elaborato i suoi dati.

Per prima cosa è importante chiarire che Giles sul Financial Times ha fatto due cose piuttosto diverse. Da un lato ha indicato alcune cose che sembrano oggettivamente dei veri e propri errori. Ad esempio, secondo Giles, Piketty ha sbagliato a inserire in una tabella la percentuale di ricchezza detenuta dall’1 per cento più ricco della popolazione svedese, prendendo il dato del 1908 invece che quello del 1920. Questo genere di errori, hanno scritto moltissimi economisti, è praticamente inevitabile quando si realizzano set di dati molto ampi.

Giles indica anche un’altra serie di problemi nei dati di Piketty che non sono sempre degni di essere inseriti nella categoria “errori”. Si tratta piuttosto di “scelte opinabili”. Ad esempio: con i dati a sua disposizione, Piketty ha ricostruito con una certa precisione l’andamento della ricchezza posseduta dall’1 per cento della popolazione in vari paesi europei nel corso degli ultimi 150 anni circa. Per ottenere la ricchezza posseduta dal 10 per cento, invece, in alcuni punti Piketty ha aggiunto il 36 per cento alla ricchezza posseduta dall’1 per cento più ricco. Giles sul Financial Times ha scritto che si tratta di una scelta arbitraria, “out of thin air”, in inglese. Diversi economisti hanno scritto che più che di una cifra inventata dal nulla si tratta di una cifra che Piketty non ha spiegato. Fa parte del lavoro degli economisti normalizzare i dati in qualche misura, soprattutto quando non sono omogenei e provengono da periodo piuttosto lontani, come ad esempio la fine dell’Ottocento. In molti hanno chiesto a Piketty di spiegare meglio come mai ha deciso di utilizzare questa cifra (e lui, in parte, lo ha fatto, come vedremo più avanti).

Un altro esempio di scelte “opinabili” è quello sull’andamento della concentrazione della ricchezza in Europa. Per ottenere una media europea, Piketty prende i dati di Francia, Regno Unito e Svezia e fa una semplice media. Giles sostiene che non andava fatta una media pura, ma che i dati dei tre paesi andavano ponderati in base alla popolazione (la Svezia per tutto il periodo è sempre stata meno popolata di Francia e Regno Unito). Anche qui: non si tratta di un vero e proprio errore. Molti commentatori hanno indicato che pesare i dati in base alla popolazione è solo una delle scelte possibili. I valori dei vari paesi possono essere ponderati in base al PIL, o addirittura possono non venire ponderati affatto, se quello che ci interessa sono i livelli di diseguaglianze all’interno delle singole nazioni. Al termine delle varie obiezioni, Giles prova a riscrivere le tabelle di dati di Piketty tenendo conto degli errori e delle diverse interpretazioni. Il risultato è che in Europa, dagli anni ‘70 ad oggi, la concentrazione della ricchezza è rimasta stabile (su questo punto e su come Piketty ha risposto, torneremo tra poco).

 

Di che parla il libro

Fino ad ora abbiamo parlato di che tipi di errori ha fatto Piketty. La domanda successiva, naturalmente, è: quanto questi “errori” hanno influenzato le conclusioni del libro? Prima di rispondere, però, è necessario fare un passo indietro e chiarire di che cosa parla il libro di Piketty. Le polemiche di questi giorni hanno probabilmente confuso le acque. Il libro di Piketty non è un libro in cui si vuole dimostrare che le disuguaglianze in Europa sono aumentate negli ultimi decenni. Questa affermazione è un “contorno” che non compare prima del Capitolo 10. Il piatto principale è molto più succoso (o stucchevole, a seconda dei gusti). Piketty sostiene infatti di aver elaborato una nuova teoria economica che sintetizza in una formula molto semplice:

r>g

Secondo Piketty, il ritorno sul capitale (“r”, cioè quanto frutta il capitale) è per sua natura superiore alla crescita economica (“g”). Secondo Piketty “r” è in media intorno al 5 per cento (cioè il capitale frutta il 5 per cento). Questo significa che, tranne in quei rari momenti in cui la crescita economica supera il 5 per cento, il capitale crescerà molto rapidamente in rapporto alle dimensioni dell’economia. Visto che la ricchezza è storicamente concentrata, questo significa che i ricchi diventeranno sempre più ricchi, lasceranno la loro ricchezza in eredità ai figli e questi a loro volta continueranno a diventare ancora più ricchi, fino ad ottenere una posizione dominante e inamovibile nell’economia di un paese. L’unica soluzione, secondo Piketty, è introdurre politiche di redistribuzione, come ad esempio un tassa mondiale sulla ricchezza (“mondiale” per evitare che semplicemente i capitali vengano messi in salvo in qualche paradiso fiscale). Attenzione: non si tratta, come sostiene lo stesso Piketty, di una legge economica dimostrata aldilà di ogni possibile confutazione. È piuttosto un’interpretazione, sostenuta dai dati e dalle argomentazioni raccolte nel corso delle seicento pagine del libro. È importante ricordare che, prima che scoppiasse la polemica del Financial Times, la maggior parte delle critiche nei confronti del libro si concentravano proprio nel fornire spiegazioni alternative e spesso altrettanto plausibili delle conclusioni a cui era giunto Piketty.

 

Chi è Piketty?

Ancora prima che la polvere sollevata dall’articolo del Financial Times si posasse, in molti hanno attaccato Piketty e lo hanno definito un imbroglione. Soprattutto negli Stati Uniti, dove la destra conservatrice era già salita sulle barricate ideologiche, Piketty è stato accusato di aver fatto volontariamente  una serie di errori per favorire la sua conclusione. Piketty è stato anche accusato di aver scritto un libro con il solo scopo di dare ai liberal una serie di argomentazioni per attaccare le posizioni dei conservatori.

Sembra abbastanza pacifico sostenere che le cose non stanno così. Errori di battitura e nel leggere le colonne sono assolutamente comuni e quasi inevitabili quando la mole di dati è cospicua. Scegliere un dato piuttosto che un altro o una metodologia per fare la media piuttosto che un’altra, sono comportamenti altrettanto comuni dai quali nessuno scienziato, non solo nessun economista, è immune. Inoltre, come hanno ricordato in molti, Piketty, dal primo giorno in cui ha pubblicato il libro, ha messo a disposizione tutti i suoi dati, le tabelle e le metodologie sul suo sito, accessibili gratuitamente a chiunque. Come lui stesso ha sottolineato in diverse interviste, se fosse stato un imbroglione, che senso avrebbe avuto mettere i dati a disposizione di tutti?

Piketty, inoltre, è un economista molto apprezzato e ha un curriculum di tutto rispetto. È nato nel 1971 e a 18 anni è entrato nell’École Normale Supérieure dove ha studiato matematica ed economia. A 22 anni ha ottenuto un Ph. D con una tesi sulla distribuzione della ricchezza. Dopo il Ph. D. ha insegnato per due anni al MIT di Boston. Ha vinto diversi premi e nel corso della sua carriera ha lavorato a lungo sul tema delle diseguaglianze. Insieme ad altri colleghi è stato uno degli inventori del concetto di “uno per cento più ricco della popolazione”. Gran parte dei dati contenuti nel Capitale, quelli ad esempio sulla concentrazione del reddito (non della ricchezza), erano già stati pubblicati e apprezzati dalla comunità accademica. Oggi Piketty è direttore della École des hautes études en sciences sociales e professore della Paris School of Economics.

Piketty è anche un economista piuttosto “schierato” politicamente e non lo ha mai nascosto. Fin da quando era giovane ha sempre partecipato alle attività del partito socialista francese. Oggi scrive editoriali per Libération, il quotidiano della sinistra francese. Nel 2006 ha lasciato la direzione della Paris School of Economics per diventare consigliere economico della candidata alla presidenziali del partito socialista Ségolène Royal e nel 2012, insieme ad altri 42 colleghi, ha scritto una lettera per appoggiare il candidato socialista François Hollande, che proprio quell’anno ha battuto alle elezioni presidenziali il presidente in carica Nicolas Sarkozy.

 

Gli errori sono gravi? E sono errori?

A questo punto, le cose dovrebbero cominciare ad essere un po’ più chiare. La tesi centrale di Piketty (che non è l’ultimo degli sprovveduti, come abbiamo visto) è che quando la crescita economica rallenta sotto una media del 5 per cento, la ricchezza ha la tendenza ha produrre più rendite del lavoro e quindi si innesta un circolo vizioso che rende i ricchi sempre più ricchi. Si tratta di un’interpretazione, anche contestata, non di un’immutabile legge di natura. A supporto di questa tesi, Piketty porta numerosi dati e serie storiche. Tra queste ci sono quelli sulle diseguaglianze nella distribuzione del redditto, frutto di lavori precedenti suoi e di altri colleghi, e di nuovi dati sulla ricchezza, molti dei quali originali e pubblicati sul libro per la prima volta.

Come abbiamo visto, il Financial Times si è concentrato su questi ultimi dati, ignorando quelli sul reddito. E questo è già un primo problema. Come ha scritto l’Economist: “Il libro si basa su molto più che sui dati delle diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza”. Inoltre, a quanto sembra, gli errori veri e propri segnalata da Giles non modificano più di tanto i risultati. I grafici con cui Giles prova a dimostrare sul Financial Times che negli ultimi anni la ricchezza non è tornata a concentrarsi in poche mani, non sono frutto degli “errori” di Piketty, ma sono il prodotto di “scelte” diverse, come ad esempio decidere di ponderare le diseguaglianze tra Svezia, Francia e Regno Unito sulla base della popolazione, piuttosto che facendo una semplice media. Moltissimi economisti hanno fatto notare che quando il Financial Times elabora i suoi grafici alternativi cade nello stesso problema di Piketty: fa scelte più o meno arbitrarie di metodologia e da queste trae le sue conclusioni.

L’ultimo capitolo di questa storia è iniziato il 30 maggio. Come abbiamo visto, parecchi commentatori hanno lasciato a Piketty il beneficio del dubbio. In molti hanno scritto che alcune delle sue scelte che sembravano arbitrarie probabilmente avevano soltanto bisogno di essere spiegate. Altri hanno scritto che forse persino quelli che sembravano errori veri e propri in realtà erano altro. A tutte queste richieste di spiegazioni, Piketty ha risposto con un documento di dieci pagine pubblicato sul suo sito in cui illustra tutti i vari punti oscuri delle metodologie che ha scelto. In una parte della risposta arriva anche a spiegare le ragioni che stanno dietro a quelli che avevamo chiamati “i veri e propri errori”, sostenedo che non erano affatto “errori”.

Naturalmente questo documento andrà letto e analizzato da persone esperte e competenti. I primi commenti però, fatti anche da economisti piuttosto distanti dalle tesi del libro, lasciano pochi dubbi su chi tra Piketty e Giles abbia ragione. Certo: tutta questa diatriba non rende r>g una legge di natura. Il fatto che i dati di Piketty siano sostanzialmente corretti non rende più solide le sue interpretazioni della diseguaglianza, che continueranno ad essere contestate ed obbiettate. L’analisi di Giles, inoltre, solleva interrogativi che vale la pena continuare a discutere. Ma le spiegazioni che Piketty ha fornito, almeno fino ad ora, sembrano piuttosto esaustive e forse, fin dall’inizio, ci siamo tutti sbagliati a parlare di “errori”.