Vestager

Iniziamo da una sintesi della questione: nel 1991 e poi nel 2007, la Apple ha chiesto al governo irlandese quante tasse dovesse pagare, secondo la disciplina fiscale vigente nel Paese e stante la governance societaria che si è data. Ha avuto delle risposte e sulla base di queste regole ha operato. Dopo anni, arriva la commissaria europea alla Concorrenza Margrethe Vestager e stabilisce che Apple deve 13 miliardi di euro di 'arretrati' a Dublino, perché quel regime fiscale è stato in realtà un aiuto di Stato concesso dall’Irlanda alla multinazionale di Cupertino.

La cosa “curiosa" è la reazione del governo irlandese: anziché gioire per la decisione della Commissione e per la montagna di soldi di cui beneficerebbe, Dublino farà appello insieme ad Apple contro la decisione della Vestager. Perché? Perché l’Irlanda ha un fondato timore che la decisione di Bruxelles possa seriamente compromettere l’attrattività dell’isola come sede di investimenti internazionali. E con quali motivazioni Dublino contesterà la decisione della Commissione? Con un argomento semplice: il trattamento fiscale cui la Apple è soggetta si applicherebbe parimenti a qualsiasi altra azienda, basata in Irlanda, che si trovasse a organizzare le proprie attività societarie in Europa e nel mondo in modo analogo a quelle di Cupertino. Francamente, pare un argomento non peregrino, e vedremo in futuro quali saranno le valutazioni della Corte di Giustizia Europea, cui spetta l’ultima parola.

A parere di chi scrive, la decisione della Commissione rischia di danneggiare non una, ma tre volte l’Unione Europea e noi cittadini: economicamente, politicamente e istituzionalmente.

Da un punto di vista economico, l’Europa appare un luogo sempre meno sicuro per gli investimenti internazionali: non tanto per l’entità delle tasse che la Apple sarebbe chiamata a pagare in virtù della decisione (13 miliardi sono poco più di un mese di fatturato, una cifra importante ma non “mortale”), quanto per l’incertezza delle regole e del diritto. Negli ultimi 25 anni, la Apple ha creato circa 6mila posti di lavoro in Irlanda, cioè in Europa, contribuendo al gettito fiscale attraverso la tassazione del lavoro, quella immobiliare e producendo un indotto considerevole.

Si dice: la Repubblica d’Irlanda ha il diritto di applicare la favorevole aliquota del 12,5 per cento ai redditi d’impresa, non di permettere ad Apple un’aliquota reale dello 0,005 per cento. In realtà l’Irlanda ha il diritto di applicare le regole fiscali che più ritiene opportune, perché nel contesto della UE la politica fiscale è una competenza esclusiva statale. Ed è molto probabile che, in assenza delle favorevoli condizioni fiscali, la Apple e molte altre corporation decideranno di ridurre la propria presenza europea, limitandosi a servire il Vecchio Continente in termini di export. Ci converrebbe? No.

Da un punto di vista politico, con il clima protezionista e sovranista che avanza, c’è chi vuole utilizzare la vicenda per dipingere Bruxelles come paladina dei diritti dei cittadini contro le multinazionali americane brutte e cattive. A inseguire i demagoghi sul loro terreno, tuttavia, si perde sempre, perché loro restano i più credibili. Quanto tempo passerà prima che qualcuno imporrà nel dibattito pubblico la necessità di una “equa” web tax che restituisca ai “popoli” il maltolto delle malefiche aziende hi-tech?

Ancora, quanto più l’Unione Europea inasprisce le condizioni fiscali per le imprese internazionali, tanto più il Regno Unito post-Brexit diverrà per queste ultime un approdo sicuro e desiderabile. Sarà uno spot potente per tutti gli “exiters” di ogni Paese. L’Irlanda resiste da anni contro le pressioni continentali che le vorrebbero far abbandonare l’aliquota del 12,5 per cento sulla tassazione del reddito d'impresa: è sufficiente una ricerca nemmeno troppo approfondita per verificarlo. Vogliamo allora dirla tutta? Quello della Commissione sembra il tipico “fallo di frustrazione” di una certa mentalità anti-competizione nei confronti dei governi a più bassa tassazione.

Infine, istituzionalmente, la decisione della Commissione amplia una faglia che si era già formata intorno alla legittimità dell’azione dell’esecutivo comunitario. Se la disciplina fiscale è competenza statale e non comunitaria, ma la Commissione può sempre insinuarsi nel sistema fiscale di uno Stato attraverso la longa manus della normativa antitrust, allora la politica fiscale viene paralizzata e armonizzata manu militari.

Ma se la Commissione Europea entra surrettiziamente in una competenza eminentemente politica come la tassazione, allora perché ciò non dovrebbe passare dall’unico luogo di vera rappresentanza politica che abbiamo nell’Unione, cioè il Parlamento Europeo? Come riporta il Wall Street Journalla Apple rischia di essere solo una delle mele in caduta dal ramo d'albero che la Commissione Europea ha deciso di tagliare. Peccato che, su quel ramo, sia seduta la stessa Unione.