Apple, i rischi per l'Europa di una tassazione 'ad aziendam'
Diritto e libertà
Molti, tra cui Piercamillo Falasca con la sua riflessione pubblicata su questo magazine, stanno interpretando la decisione della Commissione Europea nel caso Apple come un'indebita invasione del regolatore europeo nel campo dell'autonomia fiscale di un suo Stato Membro e, indirettamente, nella legittima pianificazione fiscale di un'impresa che, nell'ambito di regole esistenti, avrebbe inteso minimizzare il proprio carico tributario.
É un'interpretazione che condivido nel presupposto politico generale, che cioè la concorrenza fiscale sia positiva, ma non nel caso di specie, perché quello irlandese nel caso di Apple mi pare un atteggiamento più pericoloso per le libertà economiche europee del presunto tentativo di sovraregolazione da parte di un leviatano continentale.
Innanzitutto, la decisione dell'esecutivo comunitario non irroga una sanzione ma dispone il recupero di tasse non pagate per un periodo di 10 anni. E arriva in applicazione di una disciplina pienamente comunitaria - quella della gestione degli aiuti di Stato in conformità con il funzionamento concorrenziale del mercato interno - sulla quale l'Irlanda non ha sovranità, per espressa previsione dei trattati, e meno male, aggiungerei.
Non è infatti in discussione, nella decisione dell'esecutivo di Bruxelles, la legittimità dell'autonomia fiscale di Dublino, la quale continua commendevolmente a conservare, ad esempio, una corporate tax ad aliquota molto bassa. Ciò che la Commissione UE contesta è l'applicazione favorevole selettiva da parte dell'Irlanda del proprio regime fiscale ordinario. Per maggiori dettagli, si leggano i paragrafi 52 e seguenti della lettera inviata dalla Commissione all'Irlanda.
In buona sostanza, i due accordi conclusi dal paese celtico con la multinazionale di Cupertino avrebbero consentito a quest'ultima di imputare profitti ad entità fittizie e impostare i prezzi di trasferimento interno per beni e servizi in violazione delle linee guida in materia varate dall'OECD, consesso di cui l'Irlanda (ma anche gli Stati Uniti che oggi se ne lamentano) fa parte e nel cui ambito avrebbe potuto seguire indirizzi di policy differenti da quelli poi approvati.
Ed è sulla selettività che, con facile pronostico, è da ritenere verterà l'impugnazione della decisione di Bruxelles davanti la Corte di Giustizia Europea da parte di Dublino, insieme a considerazioni sui criteri di calcolo del vantaggio che la Commissione giudica indebitamente conseguito da Apple tra il 2003 e il 2013.
Fin qui, in estrema sintesi, il diritto.
C'è poi un tema di visione politica e di politica di sviluppo europeo, che deve fare i conti con la coesistenza tra regimi in concorrenza fiscale tra loro e le regole di funzionamento del mercato interno, che non può essere ritenuto acquisito come traguardo irreversibile.
Se da un lato la concorrenza fiscale è benefica per lo sviluppo economico, perché consente l'attrazione di investimenti ed esercita pressione sui paesi meno 'efficienti' sul piano della gestione delle risorse pubbliche, non si può però ritenere accettabile che tale competizione passi da accordi particolari tra Stati membri dell'Ue e singole imprese, perché questo rischierebbe di determinare la distruzione del mercato interno, il quale peraltro è la ragione primaria per cui una multinazionale come la Apple decide di investire in un Paese come l'Irlanda: servire un mercato molto più grande di quel singolo paese, con la garanzia che in quel mercato la concorrenza gode di protezione costituzionale (i Trattati europei).
Ora, accettare che l'Irlanda (o l'Italia), possa decidere non già i caratteri generali del proprio sistema fiscale (IVA esclusa, e scusate il gioco di parole), bensì fare accordi particolari con questo o quell'operatore economico da favorire in nome di un malinteso concetto di concorrenza fiscale, equivale ad accettare domani i dazi e misure restrittive del commercio analoghe ai dazi imposti dagli Stati Membri, che sono i veri campioni del protezionismo in Europa, e da sempre. Farei perciò molta attenzione, sul punto, ad invocare la rule of law nazionale contro quella europea.
Tanto premesso, rimango molto scettico e molto critico dell'opportunità politica di una simile decisione da parte dell'esecutivo comunitario. Sia per la tempistica - a moltissimi anni di distanza dall'introduzione delle misure contestate e in un contesto politico caratterizzato da crescenti istanze protezionistiche - che per le proporzioni del recupero. Chiedere indietro tredici miliardi è una decisione molto politica, se non altro negli effetti che produce. E infatti Bruxelles potrebbe aver definitivamente destabilizzato il già traballante governo di Dublino, oltre ad aver irritato l'amministrazione statunitense. Per capirci,tredici miliardi sono una cifra superiore al Pil di Malta e molto prossima a quello di Cipro. Tempi e importo rischiano di connotare ideologicamente una decisione che non avrebbe probabilmente difettato di ragionevolezza giuridica ed economica.
Infine c'è un tema, pregevolmente sollevato qui, di azzardo morale consentito agli Stati Membri dalle regole sugli aiuti di Stato; il sistema di controllo preventivo della conformità di un aiuto alle regole europee non funzionerà mai se lo Stato che adotta una misura di aiuto illegittima, violando l'obbligo di notificarla alla Commissione, non solo non viene sanzionato ma è addirittura premiato con l'extragettito derivante dal recupero di imposte pregresse non riscosse. Ma questo dimostra una volta di più che il vero pericolo per la rule of law e gli investimenti sono gli Stati Membri dell'Ue più che l'applicazione delle regole della "costituzione economica europea", che finora abbiamo dato per scontata, ma che oggi rischia di collassare sotto le spinte dei nazionalismi di varia natura imperanti in Europa, se non ci si prende di nuovo la 'briga' di difenderla politicamente.