Renzi e il Fiscal Compact. Da montiano a berlusconiano
Istituzioni ed economia
Aumentare il deficit per ridurre le tasse. In soldoni, questa è la principale proposta del nuovo libro di Matteo Renzi, uscito in questi giorni e già foriero di attenzioni mediatiche e polemiche politiche. Renzi sembra aver scovato l'uovo di Colombo: abbandonare le regole del Fiscal Compact (il progressivo percorso verso il pareggio di bilancio) e tornare alla famigerata formula di Maastricht, il limite del 3 per cento per il rapporto tra deficit e Pil, in modo da dare ulteriori spazi di flessibilità alla politica economica italiana, usando quel maggior deficit per ridurre le tasse.
Il segretario del PD stima così in 30 miliardi in 5 anni (6 all'anno dunque) i margini recuperabili per le misure di taglio delle tasse. Considerando che il solo bonus IRPEF da 80 euro vale circa 10 miliardi all'anno, c'è da chiedersi se il gioco - scassare il Fiscal Compact, compromettere i rapporti europei ed esporre ancora di più l'Italia alla mercé di chi investe nei nostri titoli di debito - varrebbe la candela. Molto probabilmente no, perché è alto il rischio che un governo che riporti il deficit verso il 3 per cento ne ricavi in realtà un balzo in alto dello spread, tale da far aumentare rapidamente la spesa per interessi e dunque il deficit stesso. Per restare su quel 3% che sembra oggi un obiettivo espansivo, si rischierebbe dunque di dover neutralizzare la riduzione delle tasse. Con i conti pubblici di un paese fortemente indebitato non si scherza, questo l'ex premier fiorentino dovrebbe saperlo meglio di tutti.
Nel volume, Renzi pare invece sprezzante dei nuvoloni che si addensano all'orizzonte. Anzitutto, i bassi tassi d'interesse di cui oggi gode l'economia europea (e dunque anche le casse dello Stato italiano) non saranno eterni. La "pax draghiana" di cui l'Italia ha beneficiato dal 2012 in poi potrebbe lasciare spazio a una politica monetaria più severa e restrittiva, sia perché ci sarà probabilmente da evitare il surriscaldamento dei prezzi al consumo nell'area euro (i tedeschi sono già preoccupati), sia perché politicamente i tassi bassi si giustificavano proprio con l'impegno dei governi nazionali europei di procedere a riforme e a correzioni strutturali dei loro bilanci. Se tale impegno viene meno, come appunto propone Renzi, cosa ci aspettiamo che accada sui mercati se non una fuga dai titoli di stato italiani?
In questo passaggio si coglie l'inconsistenza della critica rivolta nel libro da Renzi a Mario Monti, "accusato" di aver ceduto all'Europa sul Fiscal Compact e sul bail-in. Se le parole hanno un senso, Renzi sta di fatto sostenendo che lui avrebbe strappato condizioni migliori di quelle che Monti negoziò nel Consiglio Europeo del giugno 2012. Durante quel vertice, ricordiamo, proprio in virtù di una minaccia di veto italiano ma soprattutto degli sforzi finanziari compiuti con il decreto Salva Italia di fine 2011, si varò lo scudo anti-spread (e cioè l'utilizzo dei fondi cosiddetti Salva-Stati per acquistare titoli di stato nazionali sui mercati primari e secondari). Cosa pensa Renzi che sarebbe stato possibile ottenere per l'Italia?
Nei mesi successivi a quell'evento, in realtà, l'allora sindaco di Firenze non appariva così critico con la gestione montiana della situazione economica e finanziaria e dei rapporti con le istituzioni europee. Così si leggeva nel suo programma per le primarie del centrosinistra dell'autunno 2012: "L’azione del governo in carica (il governo Monti, ndr) ha coinciso con un netto recupero della credibilità internazionale del nostro Paese. In particolare, a livello europeo, l’autorevolezza di Mario Monti ha facilitato l’assunzione di decisioni importanti, che vanno nella giusta direzione".
Se non avessimo letto persino la pagina dedicata ai marò e a quanto male avrebbe fatto anche lì il governo tecnico a differenza del suo esecutivo, staremmo ancora qui a cercare di capire le ragioni profonde del cambio di opinione di Renzi. Le troveremmo forse nella interessante intervista rilasciata oggi dal ministro Calenda. Ma la critica per la gestione del caso marò è purtroppo la cartina al tornasole di una volontà esplicita di Matteo Renzi di invadere il campo del populismo con l'ambizione di assorbirne una parte del consenso o quanto meno di contenerlo. Il prezzo che si paga per un'operazione del genere è però altissimo, in termini di scelte pubbliche, di aspettative che si alimentano, di buon senso che si accantona.
Se il nuovo Renzi stagione 2017/2018 è questo, se così intende affrontare la campagna elettorale prossima ventura, il leader del PD sceglie di diventare parte del problema italiano e non più parte della soluzione ai problemi economici e sociali degli italiani. Emerso politicamente con l'ambizione di far superare al Pd il complesso dell'antiberlusconismo, la cifra del secondo renzismo sembra proprio l'emulazione del peggior berlusconismo, inteso come quell'approccio superficiale e mai concreto al governo del Paese accompagnato dalla retorica del "non ci fanno fare", "la Merkel dovrà accettare" e "i burocrati di Bruxelles". Manca ancora un bel "con Vladimir ci parlo io" e l'evoluzione apparirà drammaticamente completa.