È praticabile una leadership liberale per un centrodestra illiberale come quello italiano? Oppure c’è un problema più vasto e profondo, che non riguarda solo l’Italia? Sono i partiti che si stanno rivolgendo ad altri elettori, o sono gli elettori stessi che stanno trasformando in senso neoreazionario i partiti liberali e conservatori? A partire da un articolo di Giordano Masini, Strade propone un dibattito sulla mutazione genetica dei centrodestra e delle loro constituency.

parisistefano

Mi sono sempre definito un apolide nell’attuale, confuso, campo politico italiano. Ovunque abbia guardato, non ho mai trovato un politico, un programma, un’idea che mi abbia emozionato o anche solo interessato. In compenso ne ho trovate – e continuo a trovarne – tantissime che mi lasciano stupefatto per la loro inutilità o addirittura per la loro pericolosità per il futuro del nostro Paese.

Questo stato di carenza di rappresentanza politica e ideale ha trovato un momento di pausa solo qualche mese fa, in occasione della candidatura a sindaco di Milano di Stefano Parisi. Fino a poco prima dell’annuncio della candidatura di questo “semi-sconosciuto” manager, il centrodestra milanese (che ha sempre espresso una qualità politica e amministrativa ben superiore alla media nazionale) era smarrito e sperduto, incapace di competere ad armi pari con il centrosinistra e sempre più succube di quella che sembrava l’unica proposta politica rimasta sul terreno: la “ruspa” di Matteo Salvini. Invece Parisi è riuscito in un (mezzo) miracolo: quello di ridare speranza, voce e consistenza elettorale ai liberali e ai popolari, offrendo loro una prospettiva politica concreta, solida e aliena da slogan tanto urlati quanto vuoti. È stata la prova (certo facilitata dalle specificità dell’elettorato milanese) che proposte ragionevoli e non populiste possono ancora avere un appeal forte, pure in una coalizione che sembra, negli ultimi tempi, aver ceduto al canto delle opposte sirene.

In Italia c’è un elettorato di lavoratori e imprenditori che allo Stato chiede di fare poche cose ma di farle bene; che mal sopporta il peso opprimente del fisco sui propri redditi e sui propri risparmi; che non si è mai sentito né si sente di “sinistra”. Quell’elettorato lì, dopo le ultime elezioni del 2013, ha perso il proprio riferimento politico, quello (solo retoricamente) liberale e (anche troppo) moderato di Silvio Berlusconi. E il progressivo ritiro del Cavaliere ha spianato la strada a una generazione più populista, cialtrona e aggressiva (ben rappresentata dalla Lega di Salvini), che su quell’elettorato ha presto gettato una profittevole OPA. Chi crede che urlare contro la Merkel, l’Euro, l’Unione Europea e gli immigrati sia parte del problema, anziché della soluzione, chi vuole difendere il modello della società aperta contro i suoi nemici ha il dovere di offrire un’alternativa politica e programmatica a quell’elettorato. Per farlo, non si deve avere paura di sfidare, affrontare e vincere Salvini e quelli come lui: questi sono la minoranza attualmente più rumorosa, ma con il progressivo disimpegno dei più ragionevoli e dei più di buon senso rischiano di restare gli unici soggetti produttori di “leadership”. E a quel punto, si otterrà come unico risultato quello di lasciare la rappresentanza del centrodestra ai fan del lepenismo, del putinismo e ora del trumpismo (e consegnare il Paese a Renzi, se va bene, o a Di Maio, se va male).

Se si vuole evitare che vincano quelli che vogliono costruire muri, anziché buttarli giù, si deve essere pronti a “sporcarsi le mani” (perché – come ripeteva Don Milani – che senso avrà sentirle pulite, solo perché si sono tenute in tasca?). Anziché limitarsi a evidenziare la propria distanza da Salvini, si devono convincere gli elettori che una proposta libertaria e fiduciosa del futuro è migliore di quella offerta dal leader leghista (che è triste, reazionaria e chiusa). Che sulle tasse e sull’impresa, sul mercato del lavoro, sul futuro del sistema previdenziale, sulla riforma dell’UE, sulla sicurezza interna, sull’immigrazione, sul contrasto al terrorismo islamista e via discorrendo ci sono proposte migliori di quelle che vengono dagli attuali caporioni del centrodestra. Questo Stefano Parisi sembra averlo capito: in una conversazione con Claudio Cerasa su «il Foglio» di fine luglio, è stato chiaro nell’indicare come prioritari l’atlantismo in politica estera, il liberismo in economia, la valorizzazione della libertà di scelta in tema educativo, il garantismo per la riforma della giustizia e un approccio pragmatico sull’immigrazione. Sembra già un’ottima base di partenza, anche se vi si intravedono alcuni punti deboli (ad esempio: il “no” nel merito alla riforma costituzionale di Renzi è condivisibile, ma la prospettiva della convocazione di una “Assemblea costituente” sembra troppo fumosa; il giudizio negativo sull’Italicum è fondato, ma non per questo si può pensare a una legge a base “proporzionale”, meglio sarebbe puntare sul maggioritario con i collegi uninominali; e alla riforma “digitale” della PA non sarebbe preferibile una drastica riduzione dei suoi spazi di intervento?). Con le proposte di Parisi si quindi può lavorare. Prima di lasciare il Paese nelle mani di Salvini, Renzi e Di Maio, si può fare almeno un tentativo.

Il senso della scommessa di chi – per riprendere la copertina di “The Economist” di fine giugno – crede nella supremazia dell’open sul closed è proprio questo. Dare a voce a chi, più di tutti, ha usufruito dei benefici della globalizzazione, dei mercati aperti, delle opportunità di studio all’estero, delle nuove forme di imprenditorialità concorrenziale, del più lungo periodo di pace della storia recente e che più di tutti rischia di perdere in termini di ricchezza e opportunità da un salto indietro nel tempo. Checché ne dicano i “profeti di sventura”, abbiamo la fortuna di vivere nel migliore dei tempi possibili e la prosperità dell’Occidente passerà ancora una volta dalla riaffermazione delle nostre fondamenta sociali, culturali e istituzionali, non dalla loro negazione. Il senso di questa scommessa – declinata nel contesto italiano – non può però essere compreso, se prima non si sgombra il campo da un grosso equivoco: l’obiettivo non è “rifare” il centrodestra. Il centrodestra è già stato al governo al Paese e non ha fatto bene: salvo qualche rara nota positiva, non ha abbattuto la pressione fiscale, non ha liberalizzato l’economia, non ha ridotto il debito pubblico, non ha vinto la battaglia per la “giustizia giusta”. Ora, il centrodestra che ha in mente Salvini promette di fare ancora peggio, se ciò fosse possibile.

L’obiettivo è fare un centrodestra completamente nuovo, il cui programma, molto semplice e lineare, sarà riassumibile in una frase appena: “fare tutto il contrario di quanto è stato fatto in questi vent’anni”. E questo non per giovanilismo o per replicare il fascino della “rottamazione” renziana, ma per amore di chiarezza e verità. Per riuscire, quello che si deve fare, adesso, è tornare dagli elettori (non bastano editoriali ben scritti: servono comizi, meeting e incontri tra la gente) e sostenere chi sembra essere più vicino (a questo servirebbero strumenti che rendano veramente contendibili e scalabili le leadership partitiche e di coalizione, come le primarie). In questo senso la scommessa è più nostra che di Stefano Parisi, ma può (e deve) incrociarsi con la sua.