Bye bye storytelling. In Italia è tornata la realtà
Istituzioni ed economia
Oltre il dato numerico e politico, frana in queste elezioni amministrative l'idea che si possa costruire consenso con il famoso storytelling, una delle ossessioni ventennali della sinistra e della destra. “Non è la storia, ma è come la racconti” ci dicono da due generazioni: la storia dei ristoranti pieni di Silvio, dei boy scout di Matteo che prendono il potere cantando, di Torino “amministrata benissimo”, di Roma “che si salverà con le Olimpiadi”. Un immenso castello di carta costruito dai giornali, dalle tv, dagli opinionisti, mentre il reale andava da un'altra parte: e il reale erano le periferie, i troppi poveri, le élite immobili rinnovate solo per cooptazione, il circo culturale sempre in mano ai soliti, la finzione di destra/sinistra ormai perse dentro un generico governismo.
Lo storytelling ai piani bassi della contesa elettorale diventa la Panda Rossa e gli scontrini di Marino, la villa con piscina di Giachetti, la dichiarazione dei redditi della Raggi, insomma: il racconto di un avversario ladro, incapace, bugiardo, infido, con le modalità denigratorie del ciclo berlusconiano (“Comunisti!”; “Puttaniere!”) riciclate all'infinito e adattate via via ai personaggi che si affacciano. Quel ciclo è finito. La Raggi, come ha scritto qualcuno, a Roma avrebbe potuto pure menare vecchiette con l'ombrello e avrebbe vinto uguale. La Appendino, idem. E lo stesso, a Napoli, De Magistris, un Masaniello che però sa intercettare il mood della città, farsi napoletano tra i napoletani, e hai voglia a dirgli “incapace”, “populista”: lo votano a valanga.
L'altra grande lezione di questo voto – una lezione un po' nascosta, meno evidente delle altre – è la fine dell'idea che restringere la base elettorale, tifare sotto-sotto per l'astensionismo, sia vantaggioso per le classi dirigenti che possono giocarsela non sull'ampia e incontrollabile base del corpo elettorale ma sul suo segmento più “interessato”, sulle filiere che vanno al voto perché direttamente coinvolte negli esiti delle urne. Le élite di tutta Europa hanno contato su questo meccanismo, giudicandolo una garanzia contro improvvisi cambiamenti, e si sono dette: meno gente vota meglio è. E anche da noi, quante parole sull'irrilevanza dell'astensionismo, sul fatto che sia un trend di tutte le “democrazie mature” – Come in America! Come in Inghilterra! – e quanta sottovalutazione dei suoi esiti finali: basta un modesto spostamento di voti, un'emozione nuova, un fremito dell'opinione pubblica, per rovesciare il tavolo. Partita chiusa.
Immaginare che destra e sinistra capiscano queste cose, e cambino modalità, è secondo me quasi impossibile. Ci sono troppo dentro, è la loro intera cultura politica che si fonda su questi due pilastri, e nessuno (tra l'altro) saprebbe più che cosa dire al “popolo”: non a caso, chi al popolo parla è stato derubricato a “populista”, una definizione che tiene banco da dieci anni come un esorcismo di massa. Ma altra strada non c'è. O si ricomincia a fare politica puntando gli occhi sul reale, abbandonando lo storytelling in favore di una corretta lettura della storia “vera”, abbandonando la tattica della Panda Rossa, del nemico alle porte, e guardando in faccia questa Italia stremata dalla crisi, oppure giochi chiusi. La sinistra perde e lo sappiamo, ma anche la destra esce dopo un ventennio dal governo delle sue roccaforti – Latina e Varese tra tutte – ammazzata da esperienze civiche che non hanno l'imprinting Cinque Stelle ma si muovono fuori dai simboli tradizionali e dalle alleanze consuete.
Frana, qui e oggi, anche l'idea “europea” della Grossekoalition, o più modestamente del Modello Nazareno. La destra non vota la sinistra, mai. E viceversa. Non in Italia. Prenderne atto. Non illudersi di cambiare le cose con l'ennesimo ritocco alla legge elettorale. Capire che il problema è più largo del doppio turno o del premio di coalizione. Licenziare gli spin doctor. Smettere di dire sciocchezze come «Li vedremo alla prova», «Vincono le facce giovani», e tutta la caterva di banalità retoriche che ascoltiamo in queste ore. Stare sui social per capire che succede e non per postare propaganda vuota. Scoraggiare il naturale conformismo dell'informazione, cercare ragionamenti taglienti invece che consolatori. E limitare lo psicodramma delle analisi del voto, perché il voto è chiarissimo per tutti: l'Italia sta licenziando dopo vent'anni élite che percepisce come imbroglione e bugiarde, caccia il populismo di potere degli ottimati in nome di un altro populismo, che magari si rivelerà salto dalla padella alla brace, ma tant'è: la realtà è questa.