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Il 5 maggio gli Stati Uniti hanno colto di sorpresa il mondo dichiarando di voler sostenere, presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), la proposta di sospensione temporanea degli obblighi di proteggere i brevetti sui vaccini per il Covid-19. La notizia è stata subito ripresa dai media di tutto il mondo e fatta passare, soprattutto in Italia, come una “liberalizzazione” della proprietà intellettuale sui farmaci attualmente in uso.

In realtà, se mai fosse approvata nella versione statunitense, si tratterebbe di un’esenzione, richiesta originariamente da Paesi in via di sviluppo, da obblighi derivanti dalle regole globali in materia di proprietà intellettuale. Dell’esenzione farebbero uso non tanto i Paesi più ricchi, che i vaccini posso produrli o pagarli e i cui brevetti resterebbero intatti, ma quelli a basso reddito. Paesi quali l’India e il Sudafrica, che hanno promosso l’iniziativa nell’ottobre 2020, chiedono essenzialmente la libertà, per un periodo limitato, di produrre, acquistare e importare non solo vaccini ma anche strumenti diagnostici e altre tecnologie (per esempio, le valvole per i ventilatori delle terapie intensive) senza doversi preoccupare del rispetto di diritti di proprietà intellettuale che, inevitabilmente, si riflettono sul livello dei prezzi di questi beni.

Il cambio di strategia del governo americano, a livello globale, non deve essere sovrastimato. Bisogna considerare che il governo degli Stati Uniti, solo all’inizio di marzo 2021, aveva votato contro la proposta di India e Sudafrica, insieme agli altri Paesi ricchi. Inoltre, la decisione del Presidente Biden, limitata ai vaccini, giunge quando il suo Paese ha già sviluppato una massiccia campagna di immunizzazione, tenendo ferme peraltro misure di blocco all’esportazione dei vaccini e dei materiali necessari alla loro produzione.

L’Unione Europea, dal canto suo, ha mantenuto ferma la propria posizione in sede di OMC, ribadendola durante il consiglio europeo di Oporto, l’8 maggio. I governi europei ritengono infatti che una sospensione dei diritti di proprietà intellettuale non solo non aumenterebbe la produzione di vaccini e di altri strumenti di lotta alla pandemia, ma scoraggerebbe l’innovazione e un’adeguata remunerazione degli investimenti in settori ad altissima specializzazione industriale.

 

Vaccini beni comuni?
Da mesi, ormai, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sostiene che l’unica soluzione efficace per l’immunizzazione di una popolazione mondiale di quasi 8 miliardi di persone, nel pieno di una pandemia, sia un vaccino inteso come bene comune. Non è quindi una sorpresa che l’OMS si prepari a proporre un trattato sulle pandemie, in cui si permetta o incoraggi la condivisione della conoscenza scientifica a livello internazionale, per rendere l’accesso a farmaci e terapie salvavita gratuito o quantomeno sostenibile per tutti i Paesi del mondo.

A livello governativo, le scelte dettate dall’urgenza del momento sono state assai diverse. Paesi quali Cina, Russia e Cuba hanno fatto in modo che i vaccini sviluppati da centri o agenzie poste sotto il loro controllo fossero e restassero, fin dall’origine, di proprietà pubblica. Certo, si tratta di processi e risultati, sia scientifici sia industriali, che riflettono la poca trasparenza dei governi che li gestiscono e l’assenza di controlli sanitari rigorosi, come quelli garantiti dall’EMA (European Medicines Agency). Stati Uniti, Canada, Unione Europea, Israele e altri Paesi ad alto reddito si sono affidati invece all’industria farmaceutica. Lo hanno fatto accettando di buon grado la logica incentivante e premiale dei brevetti, che ha portato alle soluzioni obiettivamente più innovative, quali i vaccini di Pfizer-BioNTech e Moderna, entrambi basati sul concetto rivoluzionario di RNA messaggero. Il Regno Unito, dal canto suo, fresco di autonomia dalla UE, oltre ad acquistare i vaccini più pregiati a prezzi di mercato, ha finanziato centri di ricerca autoctoni, come quello dell’Università di Oxford che, anche con risorse proprie e vista la sua natura di ente morale (charity), ha imposto al proprio partner industriale e commerciale (AstraZeneca) la vendita di vaccini a vettore virale a prezzo di costo.


Brevetti e licenze obbligatorie
Molti sostengono che allentare la protezione dei brevetti sui vaccini, soprattutto quelli più innovativi, non comporti aumenti di produzione, né assicuri che altre aziende siano in grado di produrli. Si dice che, anche una volta rimosso temporaneamente il brevetto, sarebbe comunque difficile o impossibile trasferire ad altri tutta la tecnologia e la conoscenza necessarie alla produzione. Eppure, esistono meccanismi alternativi alla sospensione dei brevetti e idonei a rendere questo trasferimento tecnologico efficace o quantomeno più realistico.

Sin dalla nascita dell’OMC (1994), ciascun Paese può far ricorso, nel proprio territorio, a licenze obbligatorie. Si tratta di atti del governo o di altra autorità, sottoposti a controllo e appellabili, che riducono il potere delle aziende farmaceutiche, obbligandole a permettere la produzione da parte di terzi di un proprio farmaco, ritenuto urgente, dietro pagamento di un equo compenso. Quest’eccezione è stata ampliata da accordi, conclusi a Doha nel 2001 e formalizzati nel 2005, che permettono ai singoli Paesi di emanare licenze obbligatorie non solo per far produrre farmaci generici ma anche per importarli ed esportarli, a sostegno di altri Paesi in stato di necessità e non in grado di produrli.

 

Cosa può fare l’Unione Europea, in questa fase?
Pur essendosi espressa, a livello internazionale, a favore dello strumento delle licenze obbligatorie, l’Unione Europea non ha mai discusso di iniziative intergovernative o legislative che potessero rendere il ricorso a questo strumento più agevole e unitario all’interno dell’Unione. Né i governi nazionali che avevano questi strumenti già a disposizione, nelle proprie leggi, ne hanno fatto alcun uso durante la pandemia in corso.

L’immobilismo su questo fronte si può spiegare, almeno in parte, col fatto che il sistema dei brevetti non dipende dall’Unione Europea, ma da una diversa organizzazione internazionale (European Patent Organisation), molto più vasta della UE, che controlla anche l’Ufficio Brevetti Europeo. Pur avendo permesso un’armonizzazione sostanziale delle leggi nazionali in materia, quest’organizzazione non ne ha garantito la completa uniformità, soprattutto per ciò che riguarda le limitazioni dei brevetti. Non v’è dubbio che l’Unione possa intervenire su questo fronte per coordinare misure urgenti dei suoi Stati.

Inoltre, bisogna tener presente che, oltre al brevetto sulla “ricetta” di un farmaco, le imprese farmaceutiche possiedono anche un diritto esclusivo su test e dati clinici trasmessi ad autorità sanitarie (come EMA) per ottenerne l’autorizzazione alla messa in commercio. Questa esclusiva, che non rientra tra i diritti di proprietà intellettuale, pur assomigliandovi molto, impedisce la produzione di un farmaco generico prima del decorso di un periodo di 10 anni. L’Unione potrebbe decretare che, in circostanze eccezionali come le attuali, tali esclusive debbano essere ridotte o sospese per rendere possibile la condivisione di test e dati clinici e la produzione di generici.

Infine, il diritto della concorrenza può giocare un ruolo fondamentale. La Commissione UE, in quanto autorità antitrust, ha ampi poteri che le permettono di accertare e sanzionare eventuali abusi di posizione dominante da parte delle aziende produttrici o forme di cartello, tra aziende, che rallentino la produzione o l’immissione sul mercato di quote più rilevanti di vaccini e si traducano in gravi ritardi e prezzi più alti nelle forniture ai Paesi UE. Indagini rigorose su questo fronte potrebbero essere assai più efficaci delle azioni legali che sia la Commissione UE sia alcuni governi nazionali (tra cui l’Italia) hanno minacciato contro le grandi case farmaceutiche per inadempimento dei contratti.