Home restaurant? Lasciate ogni speranza, o voi che cucinate
Innovazione e mercato
Pochi concetti sono pericolosi per l’iniziativa privata quanto quello di ‘vuoto legislativo’. Non è infrequente che, appena gli attori sul mercato scoprono nuovi modi per offrire un servizio, sfruttando le risorse che hanno a disposizione – come spesso accade con le piattaforme che facilitano la cosiddetta sharing economy (che non sono altro che uno strumento per mettere in comunicazione domanda e offerta, aumentando la conoscenza) – la politica intervenga con norme a regolamentazione, dal punto di vista fiscale ma non solo, di quelle attività, che stabiliscono i limiti del loro esercizio.
Così è avvenuto con la proposta di legge n. 3258 sulla “Disciplina dell’attività di ristorazione in abitazione privata”, i cosiddetti home restaurant, già approvata alla Camera – con voti provenienti un po’ da tutti gli schieramenti – e in attesa di essere approvata dal Senato. Tra le disposizioni contenute nella legge, un tetto di 500 coperti l’anno, proventi non superiori ai 5mila euro per lo stesso periodo, prenotazioni e pagamenti esclusivamente per via elettronica e dunque tracciabile. Sarà poi impossibile esercitare l’attività per chi già offre il servizio di AirBnb. Né le disposizioni si fermano qui: i più duri di stomaco potranno facilmente trovare la lista completa sul sito della Camera dei Deputati.
Come non bastasse, “l’intervento normativo si prefigge lo scopo di valorizzare e favorire la cultura del cibo tradizionale e di qualità, in particolare attraverso l’utilizzo prioritario di prodotti tipici del territorio”. Segue richiesta alla Commissione di chiarire in che modo si voglia dare concretezza a tale disposizione. Insomma, come la legge possa mai incoraggiare l’utilizzo di “prodotti tipici del territorio” non è molto chiaro.
Gli interventi legislativi volti a regolamentare la sharing economy, così come in quelli generale che pongono dei vincoli alla concorrenza, sono solitamente presentati con vesti più nobili di quelle reali. Secondo la deputata pentastellata Azzurra Cancelleri, la legge colmerà “un gap normativo: ora l’home food ha regole chiare. Abbiamo posto un primo fondamentale tassello per riconoscerlo”. Il Parlamento non sembra ammettere altro modo per riconoscere una professione o un’attività commerciale che porre delle barriere al suo esercizio (un po’ come avvenne a suo tempo con l’albo dei pizzaioli). Nella stessa proposta si menziona “l’opportunità di definire in modo più compiuto la natura saltuaria dell’attività di home restaurant, anche al fine di garantire il pieno rispetto del principio di concorrenza”. Per decisione parlamentare, la ristorazione domestica non potrà essere un’attività a tempo pieno. Si spaccia così per tutela della concorrenza un intervento legislativo che limita fortemente tempi e modalità nei quali quel servizio può essere esercitato.
Se di tutela si tratta, è in effetti una tutela dalla concorrenza, di cui beneficeranno i ristoratori “tradizionali” e non certo i consumatori né i potenziali esercenti (secondo Confesercenti nel 2014 il fatturato prodotto dal social eating ammontava a 7,2 milioni). Soltanto chi offre un certo bene è nella posizione di stabilire quali siano le condizioni più adatte per offrirlo – ad esempio quanti coperti preparare o quali prodotti proporre – indirizzato dalle scelte dei consumatori. Queste scelte veicolano una conoscenza che l’imprenditore può trasformare in profitto, ma che il legislatore non può conoscere in anticipo; l’intervento di quest’ultimo, limitando le possibilità di accordo libero tra consumatori e ristoratori, finisce per diminuire la soddisfazione dei primi e il guadagno dei secondi.
Per una curiosa coincidenza, la regolamentazione degli home restaurant arriva a breve distanza da una notizia riguardante lo studente che lo scorso novembre finì sui giornali – e su Strade – per aver creato un “mercato nero” di merendine presso l’Istituto Pininfarina di Moncalieri. Il preside ha infatti condannato il ragazzo – non è chiaro con quale autorità – a svolgere quindici giorni di lavoro socialmente utile. Per educare, si intende, al rispetto delle regole. Esiste dunque una concorrenza buona e una cattiva, modi di servire gli altri che sono socialmente accettabili e altri che non lo sono, ed è prerogativa del parlamento – e apparentemente anche della scuola – tracciare quella demarcazione.
La distanza tra i due episodi è soltanto apparente. Dagli home restaurant alla vicenda di Moncalieri, quella che si respira in Italia è una cultura liberticida e anti-imprenditoriale che non serve alcun bene comune, soffocando gli sforzi individuali, la libertà di arrabattarsi con quello che si ha – una macchina, una casa, le nostre capacità culinarie, o un semplice zainetto – per mettere da parte qualche risparmio in più.
L’astratto rispetto delle regole è un ideale pericoloso se le regole non servono le persone, se non hanno la difesa della libertà individuale quale loro criterio, se impongono divieti o obblighi arbitrari che hanno l’effetto di ridurre le opportunità di lavoro e di scambio con gli altri.