Non è vero che l'Europa ci priva della discrezionalità fiscale. Siamo stati noi a dilapidare la nostra credibilità. Qualsiasi discussione sull’allentamento dei vincoli di bilancio non può prescindere da questo dato di realtà, per non scadere nella propaganda.

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I critici dell'austerità fiscale, quelli che attribuiscono la responsabilità della crisi all'Europa, alla Germania e ai vincoli sulle politiche di bilancio nazionali, sono sempre più numerosi in Italia. Si va dai “critici moderati”, che si battono per qualche grado in più di discrezionalità fiscale, ai “critici radicali”, disposti a uscire dall'euro pur di riavere indietro la sovranità sul bilancio pubblico nazionale. I primi pensano che si possa dare un po' di respiro all'economia senza compromettere il risanamento finanziario ma spostandolo semplicemente più in là nel tempo. Sono quelli che alla domanda: più in là quando? generalmente rispondono: quando arriverà la ripresa e la situazione economica migliorerà. I secondi, invece, per portare l'economia fuori dalla crisi non esiterebbero ad aumentare la spesa pubblica in stile keynesiano. Sono quelli che alla domanda: come dovremmo coprire l'aumento di spesa pubblica? generalmente rispondono: con il recupero dell'evasione fiscale.

Per i “critici moderati” non ha senso accanirsi con l'austerità fiscale su un'economia fiaccata dalla crisi. Pensano che l'austerità aggravi ancor più la condizione di famiglie e imprese, che è meglio allentare i cordoni della borsa oggi e rinviare l'aggiustamento dei conti a domani. L'idea di sospendere l'austerità fiscale e riprenderla quando l'economia tornerà a crescere non è “a priori” sbagliata ma certamente dipende dalle condizioni specifiche dell'economia e della finanza pubblica. In poche parole non è una ricetta valida sempre e per tutti i paesi.

Tutti ricordiamo che, per comodità di Francia e Germania, più o meno dieci anni fa, la Commissione europea sospese le sanzioni per il mancato rispetto dei parametri di Maastricht. Questo avrebbe dovuto consentire ai due paesi di mantenere per un po' il deficit sopra al 3% del PIL. Era soprattutto la Germania ad avere bisogno della moratoria, perché attraversava una crisi di bassa crescita. Andò tutto liscio, senza contraccolpi, perché non c'erano turbolenze sui mercati, perché Francia e Germania avevano un debito basso ed erano entrambi credibili sotto il profilo della disciplina fiscale.

Oggi andrebbe ancora tutto liscio? Probabilmente no. Forse solo la Germania potrebbe riproporre lo scambio di dieci anni fa, allentamento sui conti in cambio dell'impegno a riaggiustare in futuro. I tedeschi, infatti, dal 2011 sono tornati al pareggio di bilancio. La Francia non lo potrebbe più proporre. Dopo il 2002 il deficit pubblico francese è peggiorato sempre di più e il debito è cresciuto di circa trenta punti di PIL in dieci anni. La perdita di credibilità della Francia è stata certificata nel 2012 dalla perdita del rating tripla A sul debito sovrano. Cosa che ha innervosito non poco l'ex presidente Sarkozy e che forse contribuì anche alla sua sconfitta elettorale.

Nelle condizioni attuali sui mercati finanziari, con un debito pubblico elevatissimo e a causa della scarsa credibilità sulla disciplina fiscale, l'Italia non potrebbe proporre uno scambio simile. Le condizioni dei mercati finanziari e l'alto debito si spiegano da sé. Per quanto riguarda la mancanza di credibilità basta ricordare la storia degli ultimi due o tre decenni: al di fuori delle situazioni di emergenza finanziaria (quando siamo con l'acqua alla gola arriviamo a provvedimenti straordinari come il prelievo forzoso sui conti correnti!) ogni impegno assunto dall'Italia in tema di disciplina di bilancio è stato sistematicamente disatteso.

Il nostro paese ha sempre gestito il proprio bilancio pubblico in modo pro-ciclico. In altri termini, quando l'economia va male facciamo manovre correttive per mantenere la stabilità dei conti. Quando l'economia va bene allarghiamo i cordoni della borsa e redistribuiamo “tesoretti” a destra e a manca con spesa pubblica a pioggia. Un esempio macroscopico è il modo in cui abbiamo dilapidato il “dividendo della moneta unica” prodotto dalla riduzione dei tassi di interesse e del costo del debito registrati dopo il 1996. Nel giro di qualche anno la minore spesa per interessi è stata quasi integralmente sostituita da maggiore spesa corrente primaria!

Oggi non possiamo permetterci nemmeno il sospetto di allentare l'austerità. Lo pagheremmo con l'aumento del costo del debito pubblico senza avere in contropartita nessun miglioramento della congiuntura economica. Non è vero che l'Europa ci priva della discrezionalità fiscale. Siamo stati noi a dilapidare la nostra credibilità, perché in passato non abbiamo rispettato gli impegni di risanamento dei conti pubblici e abbiamo condotto una gestione del bilancio pubblico pro-ciclica.

Per i “critici radicali” dell'austerità fiscale un aumento della spesa pubblica in stile keynesiano potrebbe funzionare da stimolo all'economia portandoci fuori della crisi e aumenterebbe nel contempo quantità e qualità dei servizi pubblici ai cittadini. Gli elementi a supporto di questa tesi, che spesso si limitano a richiamare il leggendario New Deal americano, però, sono poco convincenti. Le economie di oggi sono molto diverse e molto più complesse di allora. Prescrivere oggi l'impiego di teorie elaborate quasi 80 anni fa e applicate 60 anni fa è un esercizio che richiede una certa cautela.

È superfluo aggiungere che, in questo momento, una simile proposta è finanziariamente insostenibile: posso provare a stimolare l'economia con la spesa pubblica, anche in deficit, quando il mio debito pubblico è ridotto. Non posso farlo quando sono già indebitato fino al collo. C'è chi sostiene che l'aumento della spesa pubblica potrebbe essere coperto con il recupero dell'evasione fiscale. Questa impostazione però, al di la dei dubbi sulla reale consistenza dell'evasione, delle obiettive difficoltà e dei tempi di recupero, comporta un ulteriore problema. Entrate fiscali e spesa pubblica crescerebbero entrambe, producendo un aumento complessivo del grado, già elevatissimo, di intermediazione pubblica dell'economia. Senza aggiungere altro, c'è un solo modo per definirla: antistorica.

I critici dell'austerità fiscale negli ultimi giorni hanno ricevuto un assist anche dal Tesoro americano. Il rapporto semestrale su “Economia Internazionale e Politiche dei Cambi”, del 30 ottobre scorso, sostiene che i paesi europei con surplus elevati negli scambi commerciali e domanda interna debole sono i responsabili del mancato riequilibrio economico dell'area euro. Il primo di tutti è la Germania. Anche Paul Krugman ha una opinione simile. Il premio Nobel sostiene che i tedeschi dovrebbero per primi abbandonare l'austerità fiscale e stimolare la crescita della propria domanda interna, aumentando i salari e la spesa pubblica. In questo modo si faciliterebbe il riequilibrio dei conti nei paesi in difficoltà, tra cui l'Italia, e si darebbe una spinta all'intera economia dell'area.

In proposito c'è da dire che il precedente del “piano per la ripresa economica europea” (European Economic Recovery Plan – ERP), varato dalla Commissione alla fine del 2008 e basato proprio su stimoli fiscali, non depone molto a favore di questa opinione. L'effetto dell'ERP sull'economia europea infatti fu praticamente nullo. Ma a suscitare le maggiori perplessità nei riguardi di questa impostazione è l'idea che l'attuale crisi dell'economia europea sia il risultato semplicemente di squilibri macro economici, e che basti aggiustarli per risolvere tutti i problemi. È una interpretazione che non convince del tutto, perché trascura completamente tutti gli aspetti legati alla produttività e alla competitività dell'economia, e più in generale al lato dell'offerta.

I motivi per cui le posizioni contrarie all'austerità fiscale trovano facilmente seguito, specialmente nell'opinione pubblica, sono altri. I critici dell'austerità fiscale hanno gioco facile perché il nostro è un paese dove oltre il 20 per cento degli occupati percepisce uno stipendio a carico del bilancio pubblico, dove oltre il 5 per cento degli occupati è pagato da imprese o società formalmente private ma appartenenti a gruppi pubblici, controllati da amministrazioni centrali o locali (cd. capitalismo municipale sostenuto dal denaro dei contribuenti), dove una parte significativa degli oltre 11 milioni di pensionati percepisce una pensione pubblica “a calcolo retributivo” e superiore al valore attualizzato dei contributi versati etc. Con gli esempi ci fermiamo qua. È chiaro che per un “paese dei balocchi” dove lo Stato intermedia oltre metà della ricchezza prodotta ogni anno, si tratterebbe di un elenco troppo lungo e noioso.

Ci è sufficiente renderci conto che in Italia gli appartenenti al partito della spesa pubblica sono molto numerosi e pronti a dare battaglia per difendere la propria fetta di rendita. Ma a essi si aggiungono anche buona parte di quelli che sono esclusi dal “paese dei balocchi”, ma che non lasceranno mai la speranza di entrarci a loro volta. E il fatto che ciò possa avvenire a spese di quanti resteranno fuori dalla porta non ha molta importanza per loro. La maggioranza degli italiani difende il paese dei balocchi per motivazioni prevalentemente egoistiche, distanti anni luce dalle motivazioni teoriche dell'intervento pubblico nell'economia. È una immagine paradossale, ma probabilmente è quella più vicina alla realtà. Nella cultura economica degli italiani l'idea che l'economia funziona e cresce solo quando lo Stato interviene spendendo danaro pubblico è diffusa e radicata. Perciò non stupisce che per la maggioranza la risposta alla crisi sia sempre la stessa: “più Stato”. E non stupisce nemmeno il fatto che la politica, alla disperata ricerca del consenso per sopravvivere, trasformi anche il tema dell'austerità fiscale in una banale e vuota propaganda.