C'era una volta il Sud, e la spesa pubblica
Istituzioni ed economia
Gli ultimi dati Svimez sull'economia del Mezzogiorno riportano l'immagine di un territorio sull'orlo della desertificazione industriale. Scarso non solo di risorse finanziarie e materiali, ma ormai anche di risorse imprenditoriali e umane. Riuscirà il Sud ad agganciare la ripresa economica, in futuro, sempre che quest'ultima si presenti sull'orizzonte internazionale e nazionale?
Da ben sei anni la crescita nel Mezzogiorno è negativa. Oltre 7 punti percentuali di PIL in meno dal 2001 al 2013. Quasi 14 punti bruciati nel periodo 2008-2013. Solo l'anno scorso il PIL ha perso il 3,5 per cento, cioè oltre il doppio della perdita registrata nel resto del Paese. Questi numeri disegnano un territorio in rapido arretramento verso il sottosviluppo.
La crisi generale dell'economia nazionale non basta a spiegare una situazione così grave. La congiuntura, verosimilmente, ha solo fatto da detonatore ad altri problemi, quelli di sempre e tuttora radicati nel territorio. Problemi mai risolti veramente, nonostante miliardi di euro di fondi comunitari e nazionali. Insomma, è come se le risorse pubbliche siano state spese per decenni senza praticamente lasciare traccia. Difronte a tutto ciò, è legittimo sospettare che gran parte della spesa pubblica sia andata sprecata. Che abbia favorito pochi interessi privati e non l'interesse collettivo, e che quest'ultimo sia sempre stato soltanto un pretesto formale. Così come è legittimo, fino a prova contraria, ritenere che le politiche per lo sviluppo territoriale abbiano fallito i loro obiettivi e il Mezzogiorno non si sia mai affrancato dal ruolo puramente assistenziale dell'intervento pubblico.
Le condizioni attuali del Mezzogiorno, in estrema sintesi, depongono per il fallimento di due distinte impostazioni di politica dello sviluppo, che nel corso di svariati decenni si sono succedute e reciprocamente integrate.
La prima impostazione è quella tradizionale, che punta all'industrializzazione con il sostegno degli incentivi pubblici per compensare gli svantaggi delle imprese nelle aree sottoutilizzate. La teoria attribuisce tali svantaggi per lo più ai ritardi infrastrutturali e sociali specifici del territorio. In realtà, spesso, molti svantaggi sono causati proprio da certa regolamentazione pubblica, inadatta a quelle aree ma imposta ugualmente dallo stato nell'illusione di costruire una artificiosa, quanto superflua, omologazione nazionale. Un esempio per tutti è il contratto collettivo nazionale di lavoro, che per decenni ha imposto retribuzioni omogenee a dispetto dei divari territoriali di produttività. Una regolamentazione più rispettosa delle specifiche divergenze perseguirebbe in modo più efficace ed efficiente il medesimo obiettivo di sviluppo. In certi casi l'intervento pubblico assomiglia molto a un cane che si morde la coda.
Quel che è peggio, con il pretesto di sostenere i livelli occupazionali ma per ragioni chiaramente politiche e di consenso, gli incentivi hanno favorito in modo incondizionato contesti aziendali privi di economicità e competitività, e senza alcuna prospettiva di sviluppo. In altri termini, si sono spesso trasformati in sussidi assistenziali e spreco di risorse pubbliche. Di questi interventi si è fatto ampio uso anche negli ultimi due o tre anni di crisi, allo scopo di difendere i livelli occupazionali di alcune realtà territoriali e aziendali. Tali interventi, lungi dall'essere un volano di ripresa economica, sono forme quanto mai esplicite di sostegno assistenziale a spese dei contribuenti.
Questa prima impostazione, tradizionale e di stampo macroeconomico, più di recente è stata affiancata da una nuova visione. Per farla breve, all'inizio degli anni 90 qualcuno si accorse che l'intervento pubblico nel Mezzogiorno era stato poco efficace forse perché la classe dirigente e politica locale era interessata più alle pratiche clientelari che allo sviluppo del territorio (...ma pensa un po' ? Che scoperta!). Da allora, buona parte degli sforzi è stata concentrata nel tentativo di rimuovere queste cause “non economiche” del sottosviluppo. A tale scopo fu introdotto lo strumento della “programmazione negoziata”, per mezzo del quale poi sono stati interamente gestiti i cicli di programmazione dei fondi strutturali europei negli ultimi quindici anni. La programmazione negoziata nasce con un obiettivo nobile: responsabilizzare tutti gli attori locali, pubblici e privati, verso l'obiettivo dello sviluppo territoriale, spingerli a mobilitarsi e a cooperare anche al fine di adattare meglio i singoli progetti alle specifiche realtà.
Si tratta di una visione in apparenza più realistica, perché abbandona l'idea del Mezzogiorno come entità omogenea e prende coscienza della complessità di un territorio sul quale non si può riversare denaro “a pioggia” in modo incondizionato. Ma i buoni propositi, come al solito, non bastano a garantire il successo. Di buone intenzioni è lastricata la via dell'inferno, e il fallimento della programmazione negoziata nasce proprio dall'autonomia riconosciuta agli attori locali, e prima di tutto alle regioni. Autonomia che ha conferito maggiore potere e discrezionalità proprio a quella classe dirigente e politica locale che aveva ostacolato lo sviluppo, e che ora poteva consolidare le proprie posizioni. E' come se la programmazione negoziata avesse dato una vera e propria veste istituzionale all'idea della spesa pubblica come strumento di consenso politico locale. Complice di questo anche la debolezza del coordinamento politico a livello centrale e la valutazione inefficace dei progetti e degli impegni di spesa.
In conclusione, l'esperienza del Mezzogiorno, fatta di tentativi e fallimenti, suggerisce che a volte la spesa pubblica, invece di agevolare lo sviluppo, può a tutti gli effetti ostacolarlo. E suggerisce anche che l'intervento pubblico deve essere limitato e mirato alle grandi infrastrutture, ai servizi essenziali, alla sicurezza e alla legalità, e sottoposto a una attenta verifica di opportunità ex-ante e di efficacia ex-post. Non si spende denaro pubblico per interventi apparentemente diretti all'interesse collettivo ma che in realtà nascondono precisi interessi privati. Tutto questo dovrebbe essere tenuto a mente da quanti, ancora oggi, sostengono che per riavviare la crescita e lo sviluppo bisogna sospendere i vincoli di bilancio e tornare a espandere la spesa pubblica in stile keynesiano.