logo editorialeLa profonda sintonia tra Renzi e Berlusconi sulle riforme elettorali e costituzionali, salutata come la vera svolta della legislatura, si fondava su di una obiettiva convergenza di interessi. PD e FI avevano, quasi tre mesi fa, disegnato un sistema fatto su misura, per soddisfare la duplice esigenza di arginare il "ricatto" dei piccoli partiti e neutralizzare, almeno in termini istituzionali, il condizionamento del grande antipartito grillino. La riforma configurava insomma un nuovo arco costituzionale, al cui interno PD e FI, con i rispettivi alleati, erano in grado di competere per il governo, senza essere costretti a trattare con il M5S, che veniva così confinato all'esterno del campo di gioco politico.

Per questa riforma (e per la relativa sintonia) è venuto in poche settimane a mancare il presupposto fondamentale. Non esiste e non sembra destinata a rivivere una coalizione berlusconiana competitiva con quella renziana. L'approvazione dell'Italicum e la riforma del bicameralismo (cioè l'abolizione del Senato come camera politica) consegnerebbe a Renzi una vittoria oggi praticamente certa. Peraltro, l'accordo tra Renzi e il Caimano, anziché indebolire il segretario del PD rispetto alle frange più antiberlusconiane del suo elettorato, ha indebolito FI come forza di opposizione, esponendola a pericolose emorragie elettorali verso il M5S.

L'exit strategy per sfuggire all'abbraccio mortale con Renzi e per evitare che dal nuovo arco costituzionale, oltre a Grillo, sia esclusa anche la cospicua minoranza berlusconiana comporta dunque la necessità di far saltare il banco delle riforme. Peraltro, in questa logica, a correre in soccorso di FI è proprio il sistema di voto ritagliato dalla Consulta sulle spoglie del Porcellum, in base al quale oggi supererebbero lo sbarramento del 4% alla Camera quattro o cinque forze politiche e quello dell'8% al Senato solo le tre maggiori. Su dunque Berlusconi riuscisse davvero a fermare le riforme e Renzi non riuscisse a sostituire in corsa la sua maggioranza "costituente" con quella che sostiene l'esecutivo, il presumibile voto anticipato condannerebbe il PD, partito di maggioranza relativa, a dover scegliere nuovamente tra Grillo e il Caimano, come nella primavera del 2013. Insomma, rottura sulle riforme e ricatto sul governo: questo è il piano, tutt'altro che "segreto", del Cav. verso Renzi.

In questa strategia, che Brunetta interpreta con la consueta e agitata intemperanza, ma che è logicamente molto razionale, c'è ovviamente il rischio che Renzi ottenga dalla sua maggioranza (magari allargata a sinistra) i voti necessari a sostituire quelli del Cav. senza dover cedere su quanto considera essenziale (la natura non elettiva del Senato, il no alle preferenze, la conferma delle soglie di sbarramento e per il premio di maggioranza...). Però, malgrado l'ottimismo della Boschi, è quantomeno azzardato dare per scontato questo scenario. Inoltre, un Renzi galvanizzato dal voto sulle europee e protagonista nella vetrina del semestre europeo, potrebbe essere egli stesso tentato dal voto anticipato, per sbancare nelle urne, ma per finire dopo il voto nella trappola che il Cav. gli ha preparato, a meno di non congegnare una maggioranza molto ampia, allargata anche ad Alfano e a pezzi di centro-destra moderato, che lo costringerebbe però a cambiare la misura e il racconto della sua "rivoluzione".

Insomma, la partita delle riforma si fa molto ingarbugliata, anche se le riforme sono solo il campo di gioco di uno scontro che ha una posta del tutto politica e per nulla istituzionale.

@carmelopalma

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