Scozia, Catalogna o Veneto indipendenti? Purché siano aperture, non chiusure
Editoriale
E se l'Europa diventasse un grande continente aperto, fatto di città libere e regioni autonome, superando definitivamente quegli incidenti della storia chiamati "Stati-Nazione"? Il referendum per l'indipendenza della Scozia a settembre 2014, quello della Catalogna a novembre, i tentativi di indirne uno per il Veneto, ma anche le oggettive differenze tra l'Ucraina orientale filo-russa e la parte occidentale del paese proiettata verso l'Europa: dinamiche politiche reali che non possono essere liquidate frettolosamente.
Il caso della Scozia è certamente quello più avanzato, perché offre agli elettori (ma anche alle "opinions of mankind", le opinioni dell'umanità, per dirla con la dichiarazione d'Indipendenza americana) l'opzione di una separazione caratterizzata fin da subito da alti livelli di integrazione con il Regno Unito, l'Unione Europea e la Nato. Anche lo slogan usato dai separatisti catalani nella grande manifestazione dell'11 settembre 2012 - Catalunya nou estat d'Europa - suggerisce qualcosa di simile, l'ambizione di valorizzare la natura aperta e internazionale di Barcellona e dell'intera regione.
Tuttavia, non mancano nell'uno e nell'altro caso le tentazioni identitarie, i richiami della foresta, le spinte protezionistiche. Esistono a livello britannico, spagnolo o italiano, figuriamoci a livello scozzese, catalano o veneto. Sono venature dannose. Se ci sarà una chance per i movimenti indipendentisti di prevalere definitivamente o comunque di imporre una svolta confederativa agli attuali Stati, questa passerà da una proposta aperturista e non isolazionista.
Vale lo stesso per il Veneto, in cui si va diffondendo a macchia d'olio tra i comuni della regione la richiesta di indizione di un referendum sull'indipendenza. Non c'è affatto bisogno di uno o più nuovi staterelli chiusi e impauriti dalle sfide globali, dalle culture diverse, dall'immigrazione o dalla pluralità etica. Abbiamo invece bisogno di nuovi attori aperti al mercato internazionale, alla competizione fiscale e regolatoria, interessati ad attrarre capitali e talenti del mondo.
Soprattutto, le forze autonomiste e indipendentiste dovrebbero guardare all'integrazione europea, ma anche alla grande liberalizzazione planetaria del commercio, come ad un'opportunità per i loro territori, non ad una minaccia da cui difendersi. Il rischio di questa fase storica è la confusione delle istanze: chi oggi si batte per l'indipendenza del Veneto dovrebbe tener distinte le proprie rivendicazioni di libertà economica e fiscale da quelle, opposte, di chi grida alla sovranità monetaria, alla chiusura delle frontiere, all'autarchia agricola.
Seguiremo su Strade le vicende scozzesi, catalane e soprattutto quelle venete. Non saremo faziosi, non ci indigneremo mai sventolando il feticcio dell'indivisibilità della Repubblica, faremo il tifo per l'autodeterminazione, ma non faremo mai sconti a chi parlerà di indipendenza intendendo neo-statalismo. Nel mondo globale, i paesi piccoli prosperano quando non pongono barriere alle persone, alle merci e ai capitali. Quando sono chiusi, sono patetici come la Corea del Nord.