Scozia, comunque vada sarà un successo democratico
Istituzioni ed economia
Il referendum per l'indipendenza della Scozia rappresenta, per molti versi, il più importante voto popolare degli ultimi anni in Europa e la sua rilevanza politica è destinata ad andare ben oltre i confini britannici. Stando ai sondaggi il fronte del "no" all'indipendenza appare ancora favorito, ma le ultime settimane hanno visto crescere il sentimento a favore della separazione da Londra, al punto che il "sì" è considerato comunque un esito plausibile.
È chiaro che è nel caso di vittoria dell'opzione indipendentista che il referendum scozzese produrrebbe gli effetti più prorompenti a livello continentale. Si aprirebbe, evidentemente, una straordinaria finestra di opportunità per le iniziative autonomiste ed indipendentiste in varie parti d'Europa, a cominciare da quelle già in fase avanzata in Catalogna. Nei fatti, è possibile che da Edimburgo parta un effetto domino in grado di modificare alcuni degli assunti più consolidati della politica europea. Nei fatti l'indipendenza della Scozia fornirebbe un "precedente" non solamente dal punto di vista politico ed ideologico ma anche in termini concreti di gestione e di risoluzione di tutta una serie di questioni pratiche che riguardano la divisione tra due Stati.
Tanti, infatti, sarebbero i temi che Londra ed Edimburgo dovrebbero negoziare fino al raggiungimento di una soluzione condivisa – dalla ripartizione del debito pubblico alla separazione delle forze armate, dalla gestione della moneta alla successione nei trattati internazionali a cui il Regno Unito aderisce. Né in Scozia né in Inghilterra sono al potere forze populiste ed estremiste; sia Cameron che Salmond hanno mostrato finora pragmatismo e senso di responsabilità, così che ci si può attendere che i tanti nodi aperti sarebbero sciolti all'insegna della ragionevolezza.
Sarebbe un "esperimento" interessantissimo; se scozzesi ed inglesi riuscissero a gestire la transizione in modo non troppo accidentato, tra 2-3 anni sapremmo molto di più su come si fa in pratica a creare un nuovo Stato. Insomma, il percorso della Scozia delineerebbe, dal punto di vista politico ed istituzionale, le linee guida per qualsiasi eventuale futuro processo secessionista in Europa. Il concetto di "secessione" uscirebbe dai libri di teoria politica o dalla retorica ideologica, per diventare un processo politico "governabile" in quanto già almeno una volta "governato".
Un successo del "sì" potrebbe, peraltro, innescare conseguenze positive, dal punto di vista liberale, tanto a Nord, quanto a Sud del confine. È vero che la connotazione ideologica dello Scottish National Party non entusiasma e che la cultura politica scozzese tende in generale verso datate concezioni socialdemocratiche. È anche vero però che, in un contesto di indipendenza, e senza più i trasferimenti che oggi giungono da Londra, l'idealismo progressista di Salmond e dei suoi dovrebbe fare i conti con la realtà. Anche se è improbabile che gli scozzesi si convertano filosoficamente al liberalismo, la necessità di garantire la praticabilità della Scozia in un mercato competitivo e la sua attrattività per gli investitori potrà condurre a scelte di liberalismo pragmatico, sulla scia della strada intrapresa da tempo dall'Irlanda. In altre parole la necessità di far quadrare i conti porterà alla Scozia più liberalismo di quanto lo potrebbero portare interventi eterodiretti provenienti da Downing Street.
Tra l'altro l'indipendenza scozzese porterebbe ragionevolmente ad una riconfigurazione del panorama politico interno, probabilmente con il sorgere di un centro-destra "autoctono" e pertanto più rappresentativo rispetto all'attuale Partito Conservatore che viene troppe volte percepito nei fatti come alieno al tessuto politico della Scozia. Per quanto riguarda il Regno Unito residuale, evidentemente il venir meno dei 59 deputati scozzesi (ad oggi 40 laburisti, 11 liberaldemocratici, 6 SNP e solo 1 conservatore), condurrebbe ad un significativo spostamento degli equilibri politici a favore dei tories e dell'UKIP. Ciò rafforzerebbe, evidentemente, la vocazione inglese per il governo limitato e per il libero mercato – per tutte quelle politiche "thatcheriane" che gli scozzesi non hanno mai veramente digerito.
Se quindi ci sono forti ragioni per auspicare un successo della prospettiva indipendentista, è bene rimarcare come il referendum scozzese abbia un importante valore in sé e non solamente in funzione del proprio esito. In un continente in cui troppe volte le frontiere sono state spostate con le armi, il Regno Unito ha affermato che i confini possono essere modificati attraverso l'espressione pacifica e democratica della volontà popolare. È un passaggio che certamente fa onore alla tradizione britannica di civiltà e di diritto. Le implicazioni sono politicamente pesanti, poiché nei fatti si riconosce, che le appartenenze nazionali non possono essere forzate né eterne, ma al contrario devono necessariamente basarsi, nel tempo, sull'effettivo consenso dei cittadini. Tale riconoscimento è, per tanti aspetti, rivoluzionario, in quanto va ad infrangere uno dei principali totem ideologici della politica moderna, quello dell'intangibilità degli Stati nelle loro estensioni attuali – che poi, porta con sé inevitabilmente, quello dell'ineluttabilità dei legami di "solidarietà" comunitaria che "giustificano" le politiche pubbliche di redistribuzione della ricchezza.
È chiaro che il mainstream politico ed intellettuale europeo non esclude di per sé il "principio di autodeterminazione", ma lo considera in buona sostanza un principio residuale, che un popolo occidentale non ha ragionevolmente motivo di invocare. L'idea più comune e più accreditata nei circuiti politici tradizionali è che il "diritto all'autodeterminazione" scatti solo di fronte a violazioni eccezionali dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Se un popolo minoritario è soggetto a feroci repressioni, massacri e pulizie etniche allora – e solo allora – può candidarsi alla sovranità. Chi la pensa in questo modo evidentemente accetta che il Sudan del Sud, Timor Est o il Kosovo possano diventare indipendenti, ma non può concepire che tale rivendicazione provenga da regioni tranquille ed agiate quali ad esempio le Fiandre o la Catalogna.
In secondo luogo molti ritengono che il principale fattore su cui si costituisce un'identità nazionale sia quello linguistico e che pertanto, in linea di principio, i confini politici debbano seguire i confini linguistici. È l'idea di chi giustifica che la Svezia o la Danimarca, benché piccole in termini di popolazione, siano indipendenti e che ugualmente accetta l'idea che i tedeschi dell'Alto Adige abbiano uno statuto speciale di autonomia, mentre non potrebbe mai ammettere che la Lombardia o il Veneto si sottraggano alla loro "italianità".
È evidente che gli scozzesi non si qualificano come vittime di una persecuzione a carattere etnico e nazionale. Anzi, vivono in uno dei paesi i cui standard di rispetto dei diritti civili e delle regole democratiche è tra i più alti al mondo. E nemmeno si qualificano come comunità linguistica autoconsistente; in Scozia si parla inglese e la differenza culturale che passa tra un abitante di Birmingham e uno di Glasgow non è maggiore di quella che può passare tra un lombardo ed un campano. Eppure agli scozzesi sarà consentito il diritto di decidere sulla propria sovranità nazionale e questo rappresenta chiaramente un episodio di "rottura" rispetto alle chiavi canoniche di interpretazione delle materie istituzionali e costituzionali.
Un altro aspetto degno di nota è la velocità che ha caratterizzato, in questi anni, il processo di autodeterminazione della Scozia. Il primo parlamento scozzese è stato eletto nel 1999 e quindi sono trascorsi appena 15 anni tra la "devolution" e la concessione di un referendum sulla piena sovranità – un dato che contrasta drasticamente con l'assoluta incapacità del nostro sistema istituzionale di riformarsi e, a maggior ragione, di mettere in discussione il suo assetto centralista. Peraltro, va rimarcato che le forze politiche britanniche appaiono concordi a premiare la Scozia con un ulteriore trasferimento di competenze, in caso di successo dell'opzione unionista. La Scozia andrebbe, quindi, verso la cosiddetta DevoMax, inclusiva della piena autonomia fiscale.
Il fatto è che quando ad una regione è riconosciuto un "diritto di exit", ciò sortisce effetti anche nel caso in cui tale diritto non sia effettivamente esercitato, perché necessariamente riconfigura l'intero paradigma istituzionale in senso più orizzontale. Il solo fatto che una regione possa chiamarsi fuori, fa sì che il livello istituzionale centrale non possa più esercitare il proprio potere in termini top-down, cioè imponendosi sulla base di una pura logica "maggioritaria". Da quel momento è chiaro che entra pesantemente in gioco una dimensione negoziale tra centro e periferia e che l'"unione" può durare nel tempo solo se tutte le sue parti costituenti la percepiscono come un vantaggio ed un valore aggiunto.
Certamente laddove sussistesse un simile modello "confederale" non potrebbero verificarsi le dinamiche patologiche e disfunzionali che caratterizzano oggi, in molti Stati, la convivenza tra territori. Nessun'area che disponesse di un diritto di secessione potrebbe subire una continua spoliazione fiscale quale quella a cui sono sottoposte, ad esempio, alcune regioni del Nord Italia. È probabile che nei prossimi anni i temi della devolution e dell'indipendenza ed il superamento dal basso dei vecchi Stati nazionali diventeranno sempre più "la questione" e che attorno all'asse centralismo-decentralizzazione si articolerà uno dei bipolarismi più importanti.
In fondo, se guardiamo la classifica dei paesi occidentali con economia più libera e la classifica di quelli a più alto PIL osserviamo come già oggi il "fattore dimensionale" risulti un miglior predittore delle condizioni di un paese di quanto non lo sia il colore del governo negli ultimi vent'anni. Ovunque in Occidente "piccolo è bello", efficiente e libero. In quest'ottica, chi crede nei valori della libertà individuale e del libero mercato non può che guardare con speranza agli spazi di agibilità che si possono aprire.