Capitini, Pannella, Gandhi e la differenza tra nonviolenza e pacifismo
Diritto e libertà
A giugno del 2024 è uscito "Contro la morte, sulla filosofia di Aldo Capitini" (Città del Sole editore) di Vincenzo Musolino. Dal libro è ripresa in questo articolo, da parte dello stesso autore, la riflessione sul rapporto politico tra la nonviolenza capitiniana e quella gandhiana e pannelliana.
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"La Nonviolenza è lotta (...) la Nonviolenza non è l'antitesi letterale e asimmetrica della guerra (...) è guerra anch'essa, una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e il subcosciente, contro i propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e di violenza disperata".
"Se la Nonviolenza dovesse essere interpretata, o comunque risolversi in un'acquiescenza all'ingiustizia, a quella violenza da secoli cristallizzata in Potere e in privilegi decorati ora di un'apparente legittimità, non ci sarebbe una più tentatrice sollecitazione a metterla in dubbio ed abbandonarla".
"Il [finto] nonviolento che si fa cortigiano è disgustoso: migliore è allora il tirannicida (...). Due grandi nonviolenti come Gesù Cristo e San Francesco si collocarono dalla parte degli umiliati e degli offesi. La Nonviolenza è il punto di tensione più profonda del sovvertimento di una società inadeguata".
"La Nonviolenza è attivissima (...). Sarebbe falsificazione intendere il nonviolento come un pedante occupato esclusivamente a torcere il volto davanti ad ogni menomo atto violento, senza addentrarsi nella vita e nei suoi motivi. Tra il nonviolento inerte e il soldato che si esercita faticosamente e arrischia, la possibilità di un valore morale è più nel secondo che nel primo".
(testi da: Aldo Capitini, "Il problema religioso attuale", 1948).
Ecco dove Marco Pannella apprese le sue feconde "distinzioni" ed ecco il baratro che separa i nonviolenti per "giustizia" e gli epigoni attuali di un pacifismo strumentale, prono al Potere, che giustifica, ad esempio, Putin e le sue aggressioni - arrendendosi a quella violenza, a quella autorità - mentre tace sulla forza morale e sulla costruzione del futuro che cammina sulle gambe e che si esprime con la volontà delle giovani iraniane alle prese con il regime dei tagliagole.
Ed è chiaro, così, che la nonviolenza è intrinsecamente lontana dall'ideologismo e dalla pedante casistica dei retori impegnati a strutturare il proprio "vangelo": la nonviolenza, infatti, è sempre approccio alla nonviolenza, è sempre un tendere della realtà imperfetta verso la realtà liberata.
Questa tensione tragica dell'intimo preannuncia e in qualche modo già realizza - qui e ora - la fine della violenza e della morte. Il "persuaso", ovviamente, va oltre: colui che oppone la nonviolenza - il proprio atto coraggioso - al violento e perisce per questo, colui che offre il proprio petto al male per la Salvezza del "Tu", è la concretizzazione viva dell'atto religioso, è mirum, esempio.
In questa forbice, nella distanza tra il nostro tendere imperfetto e la perfezione del "santo" (ci sono anche quelli laici!), c'è la Storia con le sue distinzioni necessarie, con il suo gradualismo e le sue approssimazioni; c'è anche la coercizione necessaria del diritto.
Non distinguere, sottrarsi alla presa di posizione chiara, abbandonare l'aggredito e l'inerme, dire "pace" senza dire "giustizia e riparazione", lasciare che la violenza abbia libero corso senza opposizione, boicottaggio, cospirazione, attivismo militante, obiezione, sanzione, significa irenismo ideologico che, in genere, nasconde sempre culto e "giustificazione" dello status quo e dei potenti.
Gandhi e Capitini conoscevano bene il problema. La questione, infatti, non è lo strumento in sé, non sono le tecniche codificate. Non è il "mezzo" ad essere nonviolento: è l'intima persuasione del valore di un "tu detto a tutti" che motiva l'azione ad essere nonviolenta o meno. E l'azione può essere variamente articolata e diversificata, fino - ovviamente - a considerare "nonviolento" l'intervento coercitivo, di protezione, legittimato dal diritto democratico.
Di fronte ad una aggressione che minaccia il debole, il dimidiato, l'offeso, il bambino, la donna libera, il giovane che non si piega all'arbitrio, quale è l'azione "morale"?
Quella di chi interviene per denunciare, per sanzionare, per boicottare, per sabotare, per fermare l'aggressione, o quella di chi si inchioda, incapace di "distinguere" e attende la vittoria del potente paranoico? In tale contesto - dicono sia Gandhi che Capitini - l'azione morale è propria di chi interviene!
Nell'intervento, poi, va ripetuto, ci sono gradazioni, limiti, armi o meno ... per me sempre meno, sempre meno! Il "persuaso" che realizza già ora la realtà liberata dalla violenza e dalla morte interviene - fuori da ogni attendismo storicistico - con la propria vita offerta al nemico, opponendo la propria moralità all'immoralità altrui, contribuendo a "salvare" anche il colpevole, il reo.
Noi che siamo sulla strada della nonviolenza - il pensiero Occidentale conosce un fiume carsico che arricchisce questo approccio (Hannah Arendt e Agnes Heller, ad esempio) - conosciamo i nostri limiti, gli errori, i passi falsi, le torsioni alle abitudini del passato.
Se non ci arrendiamo al sopruso e all'inazione (troppo spesso "interessata") non possiamo che volgerci al Diritto, ai Trattati, alla Diplomazia, alla forza (anche internazionale) disciplinata dalla norma, dalla legge, con l'afflato di affermare - già qui, già ora - la legge del domani, scevra di ogni violenza.
Il rischio di essere considerati limitati, paradossali, deficitari, deboli, è ovviamente alto, ma almeno non si rischia la strada della complicità con il violento che spera, da sempre, nel silenzio e nella pace.