Perché Ferrara usa Giffoni contro Bonino e i referendum radicali sulla giustizia?
Diritto e libertà
In un pezzo di venerdì 1 ottobre su Il Foglio, in cui Giuliano Ferrara si sofferma tangenzialmente anche su Domenico Lucano, si può leggere questa inesplicata, e inesplicabile, frase: “La buona fede dei magistrati locridei è fuori discussione”. È fuori discussione che sia fuori discussione, semmai.
E non solo la “buona fede dei magistrati locridei”. In generale, poiché qualsiasi materia che attenga alla Giustizia italiana non può essere realmente governata, dovrebbe essere almeno discussa. Come poi sia nata in Ferrara questa intuizione, al tempo stesso in cui dardeggia: “Intanto che a Lucano gli strappano i coglioni, gli ficcano la testa in una gogna, gli fanno fare il salto nel cerchio di fuoco della giustizia locridea”, evidentemente deve ascriversi a una qualche sapienza esoterica. E noi, volgari sempliciotti, ci ritiriamo nel nostro misero ordine essoterico. Nel quale, il caveat di Ferrara, perciò, ci si presenta piuttosto bislacco. Tuttavia, vi avvisiamo, ineffabilmente congruo, entro la più ampia involuzione argomentativa che subito segue.
Dice infatti il Fondatore: allarghiamo il quadro, c’è un altro nome da porre accanto a quello di Lucano: vittima di una stessa persecuzione, mossa in nome dello stesso reato, il “favoreggiamento all’immigrazione clandestina”: l’ex Ambasciatore Michael Giffoni, assolto dopo sette anni di martirio. Giustissimo l’allargamento del quadro. Solo che, a quadro allargato, la buona fede, ritenuta indiscutibile per il Tribunale “eccedentario”, invece è recisamente negata a Emma Bonino. Emma Bonino? E che c’entra? Vediamo.
Da Ministro degli Esteri, scrive Ferrara, il 7 Febbraio 2014 dispose la sospensione cautelare dalle funzioni del diplomatico allora appena accusato. Bonino, prosegue Ferrara, non potrebbe assolutamente invocare “l’attenuante burocratica”, cioè, il nesso normativo fra cautela penale e cautela amministrativa; sarebbe colpevole di “un’applicazione pruriginosa e fredda” di quella sospensione. Fin qui si può notare una dura fermezza critica, ma ancora espressa entro un ambito di pertinenza al suo oggetto. Certo: ci si potrebbe chiedere la ragione di questa critica, e della sua misura, specie nel confronto con la buona fede certificata in favore del Tribunale di Locri.
Forse una risposta si può trovarla nell’ulteriore svolgimento dei paragrafi ferrariani: come peró la può dare una parola che si abbandona al mare aperto della polemica personalistica. Perché, da qui in poi, non è più una critica, ma un antico furore che si contorce, e stenta a mantenere la veste di disincanto mondano che pure si vorrebbe dare. Sostiene (diciamo) infatti Ferrara, che la sospensione, in quanto disposta “prima del rinvio a giudizio, prima del processo, prima di tutto”, non sarebbe stata giustificata in alcun modo: il sarcasmo è univoco nel veicolare questo convincimento: “Come mai la cara Emma si è tanto appoggiata sui princìpi, da piegarli all’applicazione pruriginosa e fredda di un comma di sospensione”?
Ma da questa premessa, già scivolosa, l’invettiva precipita definitivamente nella tendenziosità, nel turbine di un’implacata animosità: Bonino avrebbe concorso all’indubbiamente infame vicenda del povero Giffoni, “fino alla distruzione silenziosa dell’imputato presunto innocente, ridotto a malattia, miseria, isolamento, ostracismo”. Ora, si capisce che il provvedimento amministrativo era criticabile e lo è anche a posteriori, come, in quanto soggetto politico, criticabile è Emma Bonino (e non essendo radicale chi scrive, nemmeno ci farebbe velo un sedimento affettivo, sempre possibile in una comunanza di idee e di vicende).
Ma il fatto è che Bonino lasció il Ministero quindici giorni dopo quella sospensione, il 22 Febbraio 2014: pertanto, pare davvero pretestuoso connetterla, attraverso quel “fino a”, all’ulteriore e lungamente distruttivo corso della storiaccia. Anche perché Ferrara sa che la destituzione fu decisa dal Ministro Mogherini, a giugno dello stesso anno. Ferrara, sul punto, inverte le posizioni fra le due Ministre: Bonino sarebbe colpevole del “primo passo della condanna burocratica del diplomatico, perfezionata da Federica Mogherini.” Il suddetto “primo passo” sarebbe decisivo; il resto, sarebbe solo un anodino “perfezionamento”.
È evidente, come questa inversione politica sui ministri, traduca la fondamentale inversione logica sugli atti: mentre la sospensione cautelare “prima del rinvio a giudizio, prima del processo”, per quanto “discutibile”, è disposta secondo la sua natura normativa, proprio perché cautelare; al contrario, è la destituzione, decisa pochi mesi dopo, e ancora “prima del rinvio a giudizio, prima del processo, prima di tutto”, ad essere indubbiamente capace di quella “distruzione silenziosa” imputata primariamente e corrivamente a Bonino. Secondo una diffusa constatazione, e anche secondo lo stesso attonito Giffoni, la destituzione in corso di accertamento rappresenta un “unicum”, nella storia e nella prassi della Farnesina.
Il provvedimento firmato da Mogherini, pertanto, determina “la distruzione” di Giffoni: ma, dicevamo, la sua parte. Infatti, dopo un anno, nel Giugno 2015, il Tar Lazio, annulla la destituzione. E il Ministero (nel frattempo, dopo Mogherini, è arrivato Gentiloni) che fa? Per mano dei suoi responsabili di carriera, quelli ai quali Ferrara ha senz’altro tributato “l’attenuante burocratica”, non ottempera. Anzi, in qualche modo, “consolida” la destituzione, attraverso un marchingegno di pura sopraffazione burocratica, formando un secondo provvedimento di destituzione e, stavolta, nemmeno a firma di un Ministro, ma del Segretario Generale del Ministero. Altro ricorso al TAR Lazio, altro annullamento (2016). L’Apparato però qui si è speso in tutto il suo prepotere, e non può farla passare; impugna, e il Consiglio di Stato ripristina questa seconda destituzione (2017).
E, in questo deliquio istituzionale, attinge vette di “perfezionamento” gesuitico, la nota con cui il Ministero degli Esteri, a guida (?) Di Maio, tanto caro a Ferrara (già nel 2019, per lui, era “qualcosa di molto simile a un uomo di Stato"), ha oggi informato che Giffoni non è stato destituito per fatti che “riguardano l'oggetto dell'azione penale”: cioè, per la emissione di un significativo numero di visti di ingresso nel nostro Paese e nell'area Schengen (accusa da cui il Tribunale lo ha assolto); ma per “gravi responsabilità di tipo amministrativo-dirigenziale, fondate sull’avvenuta emissione di un significativo numero di visti di ingresso nel nostro Paese e nell'area Schengen”. Ma certo.
A questo punto, ci siamo persi Bonino. Ma non se l’è persa Ferrara. E finalmente, si svela l’arcano: lui ce l’ha con i referendum radicali: per questo, nonostante un cosí ampio e vario stillicidio contro Giffuni, per lui vale sempre, e vale solo, il “primo passo”, quello compiuto nei primi giorni, e non più nei poteri di Bonino dopo due settimane dal suo compimento: “So che da firmaiola impenitente firmerà stavolta una lettera per emendarsi, pentirsi, rimpannucciarsi o come preferite dire, specie dopo aver firmato con Salvini…il famoso referendum per i gonzi.”
In una lunga intervista resa a Irene Testa su Radio Radicale, Giffoni nemmeno la nomina Bonino (e, per la verità, nemmeno Mogherini). Pur comprensibilmente indugiando sul lungo gorgo amministrativo che lo ha inghiottito, non meno di quello giudiziario, si sofferma sugli uffici ministeriali, sulla struttura, sui loro atti, non sulla firma del Ministro. E quando deve compendiare l’abominio subito, non considera la sospensione cautelare, ma identifica la terribile immagine della “fucilazione alla schiena” alla destituzione, anzi, alle due destituzioni (come giustamente sottolinea): quella con la firma di Mogherini (pur non nominata) e l’altra, quella di “convalida”, tutta interna alla gelida azione dei Direttori del Ministero.
Alla sospensione riferisce l’unico senso che puó avere: quello temporale; “tutto è cominciato con”, proprio per significare un mero inizio, davvero un puro e semplice “primo passo”; se avesse invece inteso attribuirgli il valore determinante alluso da Ferrara, l’avrebbe fatto, e non avrebbe lasciato Bonino nella irrilevanza causale in cui il suo racconto l’ha ragionevolmente lasciata. L’inconferenza accusatoria di Ferrara si intesse infine di un “punto d’onore”: “che almeno si abbia il coraggio di chiedere scusa. Sopra tutto quando si sia generali dell’esercito garantista.” (ma non sarebbe comunque “un rimpannucciarsi”, per una “impenitente firmaiola”?).
E così, si conclude questo suo anatema interstiziale. Che, con lo sbocco sgangherato sull’ “esercito garantista”, quanto a dire, alcunché di mestierante e di insincero, in malafede, giustappunto, svela dunque il suo vero bersaglio: un certo mondo, che obliquamente si starebbe adunando intorno al “Referendum per gonzi”. Quello stesso Referendum per cui ha firmato anche Michael Giffoni.