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Una delle mancanze che si rimprovera spesso a questo tempo è la marginalità, se non l’assenza, degli intellettuali. È sparita dalla scena pubblica la loro parola, in grado di interpretare criticamente l’attualità, ma soprattutto capace di difendere uno spazio di umanità e dialogo all’interno della cultura di massa, sempre più impoverita e autoritaria.
C’è da capire il perché di questa scarsa visibilità, ovvero perché la figura dell’intellettuale non riesca più ad avere lo spazio e il ruolo che un tempo aveva nell’immaginario collettivo. Si tratta di una deliberata esclusione da parte del sistema dell’informazione, oppure è la loro parola che non riesce più ad avere la presa che aveva un tempo, a causa del contesto culturale e mediatico oggi profondamente mutato?

Certo, la cultura della rete e delle piattaforme sociali ha messo in crisi il concetto di autorità: il flusso di notizie, opinioni, giudizi, totalmente indifferente a qualsiasi criterio di analisi e di critica, ha gettato nel discredito il concetto stesso dell’autorevolezza. Oggi esprimiamo opinioni, diamo giudizi, ma non pensiamo mai. “Il rifiuto dell’autorità è un atteggiamento mentale ormai onnipresente”. “Ormai non c’è più bisogno di ragionare sulle prove fornite dagli esperti: basta raccontare la propria esperienza”. Così scrive Geert Lovink in Nichilismo digitale, mettendo in luce un aspetto che potrebbe spiegare il fenomeno.

Ma stiamo parlando di linguaggio, di categorie interpretative del reale, in una parola: di politica. Cosa è accaduto oggi al linguaggio della politica che lo ha reso impermeabile a ogni discussione critica? Che lo ha sottratto alla presa degli intellettuali? Che lo rende ad un tempo sfuggente e capillarmente pervasivo?

Oggi si assiste ad uno strano fenomeno. Quando si dibatte con chi ha un pensiero differente dal nostro, si finisce per avere la sensazione di parlare ad uno specchio, di adottare entrambi le stesse categorie: fascismo, dittatura, democrazia, libertà. Si finisce per affibbiarsi l’uno con l’altro i termini negativi e per appropriarsi di quelli positivi.
Cosa è accaduto?
Fascismo, dittatura, totalitarismo, negazionismo, sovranismo sono termini che provengono dalla cultura di sinistra, ma che, dopo vent’anni di berlusconismo e di derive cronycapitalistiche hanno finito per perdere l’orizzonte ideologico dal quale provenivano. Oggi la maggior parte dei ragazzi non ha la minima idea di cosa vogliano dire comunismo e marxismo. Queste parole hanno finito per diventare le vuote etichette con le quali l’informazione segnala all’opinione pubblica ciò che è astrattamente negativo: tutti i cortei e tutte le folle che protestano contro le disposizioni dei governi, ad esempio.

Ma se c’è un male assoluto, c’è anche un bene assoluto. E per indicarlo anche stavolta i termini rimangono vuoti, astratti: la democrazia, la libertà, il libero mercato. Termini buoni per essere assegnati a qualunque governo, anche a quello più compiacente verso gli interessi, tutt’altro che democratici o liberali, di gruppi economici e finanziari che prosperano grazie all’insieme delle relazioni, protezioni e rendite negoziate coi poteri politici.
Grazie a questo vuoto celato dietro le parole, è possibile edificare una contrapposizione: ma si tratta di una falsa contrapposizione. Funzionale ad un’unica narrazione della realtà.

Oggi si assiste infatti ad una riabilitazione del vecchio nazionalismo. Di un nazionalismo che apparentemente dà voce al disagio economico e sociale, svolgendo ufficialmente il ruolo di alternativa al potere in carica, ma che nei fatti non mette mai in discussione le cause strutturali (demografiche, economiche) del declino occidentale e si limita a indicare nei migranti o negli Stati stranieri la causa del disagio. In questo modo, chiunque esprima dissenso, viene indiscutibilmente rinchiuso nel recinto ideologico della destra. Termini come sovranista, razzista, fascista sono parole che identificano e descrivono i confini entro cui rinchiudere, anzi: entro cui unicamente potere ammettere l’opposizione.
In questo modo l’opposizione finisce per incarnare quasi il ruolo del cattivo tipico di tanta produzione cinematografica degli ultimi vent’anni, destinato ad essere zittito o sconfitto. Film rassicuranti, in cui è ben evidenziato quale sia il bene e quale sia il male; dove immancabili arrivano il lieto fine ed il trionfo del bene.

La politica quindi utilizza ancora il vecchio repertorio che identificava la destra e la sinistra, ormai svuotato di riferimenti concreti, e lo fa per creare uno spettacolo dalle caratteristiche tipiche dell’attuale cultura di massa. Difficile che un tale linguaggio possa essere messo in dubbio, difficile farne accettare l’inconsistenza e il vuoto agli spettatori.
Il linguaggio della politica si è omologato alle caratteristiche e alle strutture della cultura di massa. Per questo è divenuto inafferrabile, per questo sfugge oramai alla discussione critica.

Ecco un altro esempio.
A giustificazione del confinamento di molti adolescenti nelle proprie case, e per rendere normale e accettabile il furto di un tempo preziosissimo, che doveva invece essere dedicato alla crescita sociale e alla formazione umana, la politica ha rispolverato un antico concetto: il concetto di sacrificio. I ragazzi che non accettano tutto questo, vengono definiti egoisti oppure irresponsabili: si richiede da loro un sacrificio per salvare la vita degli anziani più fragili, un sacrificio a cui loro invece vogliono sottrarsi, egoisticamente e irresponsabilmente.

Il sacrificio è un’idea arcaica. E spesso anche negli antichi miti sono i figli e i giovani a subire il destino del sacrificio. Agamennone ad esempio sacrificava la propria figlia, Ifigenia, per propiziarsi il favore degli dei. E probabilmente ancora oggi al sacrificio è associata l’idea che possa servire a risolvere una situazione luttuosa: ad acquietare l’ira divina.
Nel Novecento, il valore del sacrificio per la patria spinse milioni di giovani verso le trincee della prima guerra mondiale, dove scoprirono a quale orrore li aveva condannati un ideale vuoto e assurdo. Dopo quell’esperienza, qualcosa si spezzò nel legame tra quei ragazzi e la generazione dei loro padri: questi persero ogni autorità, divennero ai loro occhi dei falsi maestri, i veri responsabili di quel crimine.
Ma è nella cultura di massa attuale che l’idea di sacrificio dilaga: quanti sono i protagonisti dei film del mainstream che vengono riabilitati o sacralizzati dopo un sacrificio compiuto per il bene della comunità?

Eppure, guardando meglio in cosa consiste concretamente il sacrificio di cui oggi si parla, se ne scorge l’assurdità. I giovani sono la categoria sociale che più ha bisogno del contatto con il gruppo dei pari, un contatto cruciale per la loro formazione e il loro benessere psichico. Il sacrificio che gli si richiede sta portando inevitabilmente ad un aumento delle depressioni e, come iniziano a rivelare molti medici, dei tentativi di suicidio. Quindi, si chiede ad un gruppo sociale un sacrificio tale da condurre alla perdita non solo di preziose occasioni di crescita e alla compromissione del proprio futuro, ma anche alla perdita del proprio equilibrio psichico e a volte della vita. Tutto questo, in nome dei rischi che correrebbe, a causa loro e del loro irrefrenabile bisogno di socialità, la sopravvivenza di un altro gruppo sociale, con il quale probabilmente hanno pochissimi contatti.

Ma si tratta di logica. Ed è inutile ribadire che sarebbe bastato tutelare meglio i soggetti fragili, e soprattutto gli anziani ospitati nelle RSA, piuttosto che far risuonare su tutti i media il concetto di sacrificio, additando i giovani come egoisti irresponsabili. Ripeto: si tratta di logica. E gli archetipi che la politica rispolvera nulla hanno a che fare con la logica. Sono inattaccabili da qualsiasi discussione razionale.

Un linguaggio politico che assume le categorie di una cultura di massa semplicistica e infantilizzante; una politica che riduce il cittadino a spettatore passivo di uno spettacolo organizzato per lui, che non prevede alcuna riflessione o critica; una politica del tutto assimilata alla produzione dello spettacolo globale, non può offrire alcuno spazio alla figura dell’intellettuale, che ne uscirebbe ridicolizzato dal confronto.
Si tratta di questo allora: dobbiamo ancora elaborare un linguaggio per definire esattamente la forma di questo inedito totalitarismo. Perché se ne possa finalmente cominciare a parlare.