Storia dello studente di Fano e della sua rappresentazione
Diritto e libertà
“Eppure, la magia non è altro che l'arte di impiegare
consapevolmente mezzi invisibili per produrre effetti visibili”
W. S. Maugham, Il mago
Quale genere di patto stringe l’informazione con i suoi spettatori? Che tipo di reazione e di coinvolgimento mette in atto? Un articolo apparso sul Resto del Carlino del 6 Maggio 2021 ci fornisce un esempio del genere di rappresentazione alla quale l’informazione ci ha ormai abituati. L’articolo è stato costruito intorno a un episodio. Uno studente diciottenne dell’Istituto Tecnico Commerciale «Olivetti» di Fano, dopo essersi incatenato ad un banco in segno di protesta, ha rivendicato il suo diritto a seguire le lezioni senza indossare la mascherina. Così, dopo due ore di inutili trattative per convincere lo studente a rispettare le regole, i suoi compagni di classe sono stati spostati in un’altra aula, i corridoi liberati, sgomberata la scuola, e al giovane è stato ordinato di lasciare l’istituto. Ma ad attenderlo fuori vi erano un’ambulanza ed un’auto della polizia. Così il ragazzo è stato preso in custodia dai sanitari. I quali, dopo avergli somministrato dei calmanti presso il pronto soccorso del Santa Croce, lo hanno trasferito nel reparto psichiatrico di Pesaro, a Muraglia.
Il sacco vuoto
Questo il fatto, in estrema sintesi. Ma come scriveva Pirandello, i fatti sono un sacco vuoto. Per riempire il quale nell’articolo vengono adottati due efficaci espedienti, che esemplificano benissimo la struttura della rappresentazione dell’informazione ufficiale. Il primo di essi è lo spostamento dell’attenzione dai fatti alle opinioni. Si tratta di spostare il fuoco dell’immagine, la sua inquadratura, da ciò che è accaduto concretamente a quegli aspetti dei fatti che sono invece estremamente opinabili. Il giornalista infatti si chiede subito: “Ma che tipo è questo diciottenne?”. Immediatamente vengono espressi giudizi negativi sul ragazzo. In apertura si definisce la storia di questo giovane “una brutta pagina di questi tempi”, e alla fine si ridicolizza la protesta del ragazzo utilizzando il termine “folklore”. Inoltre, nel corso della narrazione vengono riportate le parole della preside e di un docente, i quali definiscono il giovane un “bastian contrario”, sempre critico su tutto. Questi viene ulteriormente fregiato del titolo di “giovane ribelle”.
Questo spostamento narrativo, dai fatti al personaggio, sembra un espediente innocente, a prima vista: un modo per rendere più avvincente la narrazione. Qualcuno troverà anche naturale indagare sulle caratteristiche delle persone coinvolte nei fatti, un modo per renderli più comprensibili, per giustificarli. Tuttavia, non vi è alcuna innocenza. In questo modo, si passa dai fatti oggettivi, concreti, a questioni che riguardano la sfera dell’opinione. L’attenzione cioè si concentra subito sulla definizione del carattere del ragazzo; ovvero, si preferisce sorvolare su ciò di cui non si deve discutere, ovvero la protesta di un adolescente conclusasi con un ricovero forzato in un reparto psichiatrico, e si discetta invece su di un argomento in grado di generare le più diverse opinioni: il carattere di una persona. Uno, nessuno e centomila, appunto.
La definizione di un carattere è questione estremamente soggettiva. Su di esso si possono esprimere opinioni diverse, tutte ugualmente valide. Questo spostamento, oltre a sviare l’attenzione dal vero problema, ovvero l’abuso inimmaginabile compiuto su un adolescente, ottiene un altro importante effetto: fomenta la discussione sulle piattaforme sociali, sempre assediate da gente desiderosa di esprimere il proprio parere su tutto e su tutti; permette a ogni spettatore di sfogare le proprie risposte emotive, riducendo alla forma di un confronto verbale sterile e inutile la facoltà del giudizio critico. Rinchiudendo l’esigenza di partecipazione dentro un percorso di pensiero obbligato, senza possibilità di sviluppo, di sintesi. Ecco allora un fiorire di innumerevoli giudizi, naturalmente polarizzati su due schieramenti opposti e irriducibili l’uno all’altro: ben gli sta! oppure, vergogna! Una polarizzazione innescata da una domanda inessenziale: che tipo era il ragazzo?
Il Mago
La realtà dei fatti, questa scomoda compagna, viene quindi interpretata, tagliata in modo che sia funzionale alle aspettative di un pubblico desideroso di sentirsi protagonista, ma le cui opinioni sono del tutto private di importanza, di necessità. Semplici sfoghi. Tuttavia, questa povera Cenerentola subisce un ulteriore trattamento, anch’esso atteso, desiderato dal pubblico: la proiezione sui fatti di un archetipo letterario, di uno stereotipo narrativo.
Nell’articolo si parla di non ben identificato “costituzionalista” con il quale il ragazzo si tiene continuamente in contatto durante tutta la sua protesta. Il misterioso personaggio avrebbe anche assistito fuori dalla scuola al prelevamento del ragazzo, a quanto si evince dalle parole della Preside. Sia lei che i medici parlano subito di una pessima influenza di quest’uomo sul ragazzo: il giovane sarebbe stato plagiato da lui, sarebbe stato vittima dei suoi cattivi consigli. In questo modo viene proiettato sulla realtà lo stereotipo del seduttore della gioventù, del malvagio sfruttatore dell’innocenza e della buona fede dei giovani. Un tema narrativo che ha avuto molta fortuna, sia nei romanzi che nel cinema. Un archetipo convincente, alla portata di tutti. A questo tipo di immaginario, piuttosto che alla complessità della realtà, in cui difficilmente si trovano ruoli così nettamente definiti, siamo, come pubblico di film e serie tv, ormai da tempo abituati: e così pretendiamo che la realtà si adegui all’immaginario, che risulti più seducente, meno grigia.
Ecco allora venire fuori il personaggio del malvagio manipolatore delle coscienze; che resta naturalmente anonimo, misterioso; che parla al telefono con il ragazzo, versando nelle sue orecchie chissà che diaboliche formule; che assiste a tutto davanti alla scuola, come una presenza misteriosa che si gode gli effetti della sua malefica influenza; che magari è in possesso di misteriose arti magiche in grado di annullare la volontà delle persone, come il protagonista del romanzo Il mago di W. S. Maugham.
Su questa strategia di rappresentazione del fatto si sono poi modellati tutti gli articoli comparsi successivamente sulle maggiori testate giornalistiche italiane. È una rappresentazione che ha il pregio di fornire uno svago interessante, dal sapore cinematografico; di far discutere chiunque, di offrire a chiunque l’occasione di declamare un’opinione. Di far dimenticare che le nostre chiacchiere spesso hanno come sfondo eventi a dir poco sinistri: in questo caso, una vera e propria tragedia sociale.
La morale segreta della favola
Sviamenti e proiezioni portano ad un effetto finale decisivo: la penetrazione subdola di un monito, di un senso irragionevole di colpevolezza, di una possibile ma indefinita punizione. Dal momento che nessuna riflessione viene richiesta allo spettatore sul fatto del ricovero forzato del ragazzo in psichiatria; dal momento che l’immaginario dell’occulto manipolatore delle coscienze viene da questi accettato come realtà; due messaggi passano in modo silenzioso e acritico nella sua coscienza: la pericolosità di mettere in atto qualsiasi tipo di protesta, anche la più pacifica, dal momento che essa può terminare con l’arresto e il ricovero forzato; ma anche la pericolosità di ogni espressione di dissenso, che potrebbe indurre la gente a scambiarti per un pericoloso manipolatore, per un diabolico approfittatore della buona fede dei giovani. La preside afferma che avrebbe volentieri dato un pugno in faccia al “costituzionalista”. Punizione e linciaggio, sia mediatico che fisico, sono il destino di chi protesta, di chi dissente. Ecco il messaggio inespresso che pervade alla fine gli spettatori. La morale segreta, intimidatoria, di una favola confezionata per un pubblico già da tempo infantilizzato, un pubblico abituato a “sottoscrivere un patto narrativo altamente regressivo”, per usare le parole di A. M. Banti.
Lo spettro della realtà
Ma, nonostante tutto, dalle pieghe dell’articolo, tra le sue righe, la realtà finisce per filtrare, quasi per indizi, per accenni. Uno spettro inquietante, inaccettabile. Riportando un colloquio telefonico tranquillo e coerente con il ragazzo, sembra che improvvisamente il telefono venga a lui tolto di mano dal medico, non appena lo studente dice “i miei genitori non sono con me”: “deve restare sereno”, afferma perentorio il medico, troncando di fatto la discussione. Oppure quando si riporta che il ragazzo ha volontariamente seguito il medico che lo attendeva sotto la scuola, segno che non era affatto agitato in quel momento, che accettava di buon grado di essere portato in ospedale (magari non immaginando ancora che da lì lo avrebbero destinato ad un ricovero in psichiatria). O quando si dice che anche altre volte aveva messo in atto delle contestazioni. Probabilmente, stavolta ha preferito avere un sostegno legale, e il costituzionalista con il quale si mantiene in contatto durante la sua protesta, piuttosto che il fomentatore, l’occulto manovratore della sua coscienza, sembrerebbe un legale a cui è ricorso il ragazzo prima di attuare la protesta: segno in più a favore della sua lucidità, della consapevolezza delle conseguenze che sarebbero scaturite dal suo gesto. Sapeva di ritrovarsi completamente solo e avrà pensato che sarebbe stato meglio avere un appoggio, una tutela. Una persona equilibrata, dunque, condotta di forza in un reparto di psichiatria: schiacciato da una struttura sanitaria che, applicando procedure standardizzate, si trasforma in uno strumento di controllo, di sopraffazione, di coercizione.
Ma la struttura sanitaria, pervertitasi in una rigida struttura fatta di protocolli indiscutibili, non è l’unica istituzione ad aver perso la sua finalità originaria in tutta questa vicenda. Anche la scuola ha finito per mettere in luce l’aspetto oppressivo tipico di tutte le istituzioni burocratiche in generale. La scuola, come luogo di formazione, non dovrebbe essere definita una burocrazia, tuttavia, in questo caso, si è ridotta ad essere una pura istituzione, un meccanismo burocratico automatico e impersonale, in cui è impossibile contestare le disposizioni ricevute dall’alto. Le norme, per quanto esse siano incostituzionali e lesive della salute e della libertà degli individui, non possono essere discusse all’interno di una istituzione rigida e autoritaria: si devono semplicemente e ciecamente applicare. L’istituzione si difende severamente da chi contesta le norme, escludendolo, condannandolo senza appello.
Sarebbe utile ricordare quanto la struttura burocratica delle istituzioni abbia da sempre favorito i sistemi politici oppressivi. Proprio sul nascere dei regimi totalitari in Europa, Simon Weil affermava che la burocratizzazione è un processo che caratterizza ogni aspetto della vita sociale contemporanea: dall’economia alla scienza. Ma la burocratizzazione stessa è uno strumento di oppressione. All’interno della macchina burocratica, gli individui finiscono per perdere una fondamentale qualità umana: la possibilità di decidere autonomamente, di fare appello all’intelligenza e alla sensibilità personali. “La funzione più propria dell’individuo, quella di coordinare, dirigere, decidere, da capacità individuale diviene collettiva e anonima”. La struttura burocratica finisce per diventare il fine dell’azione degli individui, mentre questi si riducono a semplici strumenti per la sua conservazione. “I meccanismi burocratici sostituiscono i capi. Gli sforzi dei lavoratori hanno senso solo se si cristallizzano in grandi meccanismi e il rovesciamento tra mezzi e fini, essenza della società oppressiva, diviene totale, estendendosi a tutto”. (S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale). L’immagine della scuola che emerge dall’articolo purtroppo è questa: una istituzione utilizzata come strumento per generare intimidazione e repressione.