La corte d’assise di Pavia ha giudicato l’italo-ucraino Vitaly Markiv, soldato della guardia nazionale, colpevole di omicidio volontario per la morte del fotoreporter Andrea Rocchelli e del dissidente russo Andrei Mironov, suo interprete, a Sloviansk il 24 maggio 2014. Lo sappiamo: la sentenza è del 12 luglio. Markiv è stato condannato a 24 anni di reclusione, senza le attenuanti generiche che il pm aveva chiesto. 21 per l’omicidio di Rocchelli, 3 per il “reato continuato” della morte di Mironov. La lettura delle motivazioni della sentenza, pubblicate di recente, apre molte perplessità su quanta effettiva “giustizia” sia stata fatta.

Restiamo convinti che le prove “oltre il ragionevole dubbio” non siano state raccolte, ma ora sappiamo che la corte si è sostanzialmente “appiattita” sulle tesi dell’accusa, rinunciando a tenere in considerazione qualunque rilievo avanzato dalla difesa di Markiv e invece accogliendo anche gli elementi irragionevoli delle tesi della procura nonché testimonianze tra loro contraddittorie come se un teste che cambia versione sia perfettamente credibile. Di seguito analizziamo alcuni (pochi) elementi delle motivazioni della sentenza (qui un'illustrazione più complessiva), cercando di inquadrarli nello scenario di quel 24 maggio per i lettori che non conoscono appieno i fatti. Ne risulterà un resoconto assai parziale rispetto al materiale da analizzare (oltre 170 pagine), ma non possiamo qui fare di più.

Cominciamo dalla mancata applicazione delle attenuanti generiche. Per la corte, Markiv «ha deciso, in modo legittimo (si noti: legittimo!) di non ammettere alcun addebito (..)», e quindi «la mancata comprensione di aver commesso un odioso crimine» impedirebbe di applicare le attenuanti. Traduciamo: se mi proclamo innocente, è ovvio che non comprendo di avere commesso un crimine che ritengo di non avere commesso; ma questo basta a non concedere le attenuanti. Come ognuno capisce, non c’è logica in questo.

L’articolo del Corriere come “confessione stragiudiziale”

Resta non provato in alcun modo che Markiv fosse in postazione, quel giorno, sulla collina dell’antenna televisiva (l’unico punto di Sloviansk presidiato dall’esercito ucraino, armato di mortai, e dalla guardia nazionale di cui faceva parte Markiv, armata di AK74). La corte accoglie in toto quella che definisce “confessione stragiudiziale” di Markiv, “resa” con l’articolo sul Corriere della Sera del 25 maggio 2014 a firma di Ilaria Morani. Non c’è altro modo per provare l’operatività di Markiv nel momento della tragedia. I documenti con la registrazione dei turni sono andati perduti e nessuno dei commilitoni di Markiv, né il suo comandante di allora, ricordano ovviamente se Markiv fosse o non fosse in postazione il pomeriggio del 24 maggio 2014. Ma se questo, a logica, genera un dubbio non facilmente superabile, per la corte diventa una mancanza della difesa che non riesce a portare prove a discolpa.

In altri termini: la prova che Markiv si trovasse in collina in postazione è una “confessione stragiudiziale” di un articolo di giornale, in cui peraltro mai Markiv dichiara di aver partecipato al fuoco; la controprova non esiste; quindi non v’è dubbio che Markiv si trovasse in collina.

Purtroppo quell’articolo presenta un mare di problemi interpretativi. Nel testo, Markiv è una specie di comandante (trascuriamo che nel titolo si legga «capitano»: i titoli, si sa, sono fatti per far leggere il resto). Una circostanza strenuamente negata da Markiv e da chiunque altro, ma che la corte ritiene di provare perché, in una fotografia successiva al 24 maggio, l’imputato è su quella collina e ha una ricetrasmittente. Poiché in postazione ci sono due o tre uomini e le comunicazioni della guardia nazionale all’esercito vengono effettuate con le ricetrasmittenti, la corte conclude che Markiv abbia una “responsabilità” sui compagni di postazione avendo in mano l’oggetto. Resta la domanda su come sia possibile indicare il ruolo di qualcuno sulla scorta di una fotografia successiva.

Riguardo alle fasi preliminari alla stesura dell’articolo, non possiamo non ricordare (anche perché sono agli atti del processo) che vi è discordanza tra Fauci e Morani sulla data della telefonata (24 sera o 25 mattina), e perfino sulla lingua usata (italiano o inglese e italiano). Saranno anche dettagli di poco conto a distanza di tanti anni, ma è strabiliante che la corte, accogliendo l’articolo come “confessione stragiudiziale”, non faccia il minimo accenno a questi elementi.

L’imputato al “comando”?

La questione del “comando” è dirimente, perché se invece Markiv fosse stato un mero soldato senza responsabilità nemmeno della sua postazione, non si potrebbe certo affermare che abbia dato lui il “via” all’operazione. Ma non è nemmeno provato che l’operazione sia partita dalla sua postazione (chiunque fosse al “comando”) e non da un’altra. L’unico appiglio in merito è ancora l’articolo del Corriere, laddove Markiv affermerebbe che «normalmente non spariamo sui civili» ma «quando vediamo qualcosa che si muove, lanciamo l’artiglieria pesante» e «questo è accaduto all’auto dei due giornalisti e dell’interprete». Ai due giornalisti e all’interprete, cioè a Rocchelli e Mironov (morti) e al fotogiornalista francese William Rougelon (sopravvissuto). Ma come poteva Markiv sapere che gli “operatori” fossero tre?

Secondo l’accusa, e la corte, quel pomeriggio gli ucraini videro gli uomini e li riconobbero come operatori dell’informazione; e siccome i giornalisti (testuale del pm) «avevano stufato» nel documentare, nei giorni precedenti, quanto avveniva a Sloviansk, decisero di ucciderli. Ma dall’auto uscirono quattro persone (Rocchelli, Mironov, Rougelon e il tassista) e al gruppo si aggiunse un giovane civile spuntato fuori all’improvviso. Le persone erano quindi cinque. Secondo la corte, gli ucraini videro Rocchelli e Rougelon scattare fotografie e quindi sapevano che si trattava di cronisti. La distanza è di almeno un chilometro e 600 metri, forse anche qualcosa di più. Una distanza da cui è molto complicato notare una macchina fotografica, atteso che non vi erano elementi identificativi e addirittura Mironov indossava una mimetica.

Ma fossero anche state viste le macchine fotografiche (personalmente lo ritengo impossibile), come faceva Markiv a sapere che Mironov aveva il ruolo di interprete? Questa precisione identificativa nell’articolo del Corriere non può che essere arrivata dall’interlocutore di Markiv: ovvero il giornalista italiano Marcello Fauci, che conosceva Markiv da qualche mese, quando si erano incontrati a Kyiv, a Maidan Nezaleznosti, durante la nota protesta dei cittadini contro l’ex presidente Viktor Yanukovich. Markiv, avendo vissuto a lungo nelle Marche, parlava l’italiano ed era quindi un riferimento per i cronisti del nostro Paese di stanza a Kyiv. Fauci, saputo dell’attacco, lo chiamò al telefono e fece ascoltare la telefonata a Morani in viva voce (almeno, questa è la versione ufficiale di come andò la cosa). Nel dialogo (perché evidentemente Markiv non fece un monologo), Fauci potrebbe avergli detto “dei due giornalisti e dell’interprete”. Quella non sarebbe, quindi, la trascrizione letterale della telefonata. Come è normale che sia. Ma allora, trattarla come “confessione stragiudiziale” pare un po’ troppo. Ed invece è esattamente quel che si legge nelle motivazioni della sentenza: è Markiv ad autocollocarsi in collina il giorno della morte di Rocchelli e Mironov, è Markiv ad autocollocarsi tra quelli che hanno sparato ai due giornalisti e all’interprete.

Markiv amico dei giornalisti si “trasforma” in loro giustiziere?

Fauci aveva parlato con la sua “fonte” Markiv anche qualche giorno prima, ed in quell’occasione Markiv gli aveva consigliato di non venire alla collina perché si trattava di una zona pericolosissima, interessata dal fuoco incrociato tra gli ucraini dell’esercito e della guardia nazionale, che proteggevano la collina dell’antenna televisiva, e i separatisti sostenuti dalla Russia, che occupavano il resto di Sloviansk e in particolare un treno in disuso e una fabbrica di ceramiche alla base della collina. Markiv, amico dei giornalisti con cui aveva collaborato a Maidan, avvertiva i suoi amici giornalisti di non venire in collina. Difficile credere che, il pomeriggio del 24 maggio, si sia trasformato nel giustiziere dei cronisti, come da ricostruzione dell’accusa accolta dalla corte.

Di più: successivamente, ad agosto 2014, Fauci si recò in ospedale a visitare Markiv ferito e gli chiese in regalo un giubbotto antiproiettile, che qualche mese dopo Markiv gli procurò a Kyiv. Questo significa che Fauci evinse che Markiv fosse coinvolto nell’omicidio volontario del suo collega Rocchelli ma continuò a frequentarlo, addirittura ad andarlo a visitare in un ospedale. Chi mai si comporterebbe in un modo del genere? Non è più probabile che, dalla telefonata, Fauci avesse invece tratto l’idea che il suo interlocutore non fosse coinvolto? La corte non accenna nemmeno a questo.

Sparare a 1,6 km con un AK74

Abbiamo anche segnalato che la distanza tra le postazioni ucraine in collina e il gruppo di cinque persone è di almeno un chilometro e 600 metri. Una distanza dalla quale le sagome di individui senza segni identificativi sono pressoché indistinguibili, dalla quale un oggetto come una macchina fotografica non è facilmente individuabile. Abbiamo detto che comparve un giovane civile, sulla scena, di cui non si sa alcunché. Se non che urlò «cecchino» e immediatamente dopo iniziarono i colpi. Secondo la procura e la corte, colpi dalla collina.

Ma gli AK74 hanno un tiro utile di 600-800 metri, e una gittata un po’ superiore (ma la gittata massima è la distanza alla quale il proiettile cade a terra, dunque non utile a ferire o uccidere qualcuno). Inoltre, i colpi al taxi (di cui abbiamo i fermo immagine) secondo gli esperti balistici sono dal basso all’alto, cioè da dove stavano i separatisti: un dettaglio, ancora, che la corte, in motivazione, nemmeno cita. Ed è impossibile che i primi colpi fossero di mortaio, che avrebbe un tiro utile maggiore.

I separatisti a loro volta erano dotati degli stessi AK74 della guardia nazionale ucraina e degli stessi mortai dell’esercito ucraino. Tutte armi di fabbricazione sovietica, “eredità” del suo collasso. Mironov, prima di morire, in una registrazione che si è conservata, mentre conversa dal fossato con gli altri compagni, parla di fuoco incrociato e di colpi di mortaio «anche qui vicino». Il che significa che i separatisti stavano sparando. La corte deve riconoscerlo ma non rinuncia ad asserire che i primi colpi arrivarono dalla collina. Ma noi sappiamo anche che i colpi iniziarono quando il giovane civile misterioso urlò «cecchino!». Chi poteva ascoltarlo se non qualcuno nelle vicinanze, cioè un separatista?

Che fosse uno «scenario di guerra», ammettendo l’evidenza, ad un certo punto lo scrive la stessa corte, non rinunciando però a definire i separatisti benevoli verso i cronisti, perché Rougelon, emergendo dal fossato, gridò «giornalista» e gli spari cessarono (significa che stavano sparando i separatisti, ovviamente). Così benevoli, i separatisti, che non accompagnarono in ospedale Rougelon ferito ma lo fecero allontanare. Così benevoli, i separatisti, che quando Rougelon fermò un’auto e chiese un passaggio, il baule fu crivellato (la corte scrive dagli ucraini, che però distano ormai quasi 3 chilometri).

Ma allora perché la stessa corte non considera la benevolenza di Markiv verso la classe giornalistica, di cui era amico da Maidan? Perché la stessa corte non considera la benevolenza di tutta l’Ucraina verso Rocchelli, che con raro spirito d’indipendenza aveva narrato (attraverso le sue immagini) la protesta di Maidan senza cadere in quei falsi luoghi comuni secondo cui si trattava di una protesta “nazionalista”, “nazista” e quant’altro, e in cui tuttora cadono molti di coloro che parlano di Ucraina, Russia, Donbas?

Mironov “bersaglio” del Cremlino?

In conclusione (anche se non siamo stati esaustivi rispetto alle 170 pagine della sentenza), altre domande rimangono senza risposta. Se è vero che sparavano tutti in uno scenario di guerra, e la corte lo ammette, come si può affermare che il supposto attacco ucraino ai cronisti abbia violato la Convenzione di Ginevra? Se è vero che Mironov era stato un dissidente sovietico e in seguito è stato critico verso Putin, perché nessuno ha provato a indagare sul fronte separatista (sostenuto dalla Russia di Putin) e sul fatto che a Mironov, non a Rocchelli, era arrivato il suggerimento di recarsi ai piedi della collina? Chi glielo aveva consigliato? E che dire di Rougelon, che in due diverse deposizioni dichiara prima di non essere in grado di dire da dove provenissero i primi colpi, poi di avere avuto «l’impressione» che venissero dalla collina (dagli ucraini) «senza però poterlo affermare» (con certezza)? Perché la corte non considera la discrepanza tra le due deposizioni (che porterebbe a minare la credibilità del teste) e invece le “traduce” asserendo che Rougelon ha identificato nella parte ucraina l’inizio dei colpi?

Appare almeno arbitraria la “scelta di campo” di una procura che ha deciso che Rocchelli e Mironov sono stati uccisi dagli ucraini volontariamente, con un attacco perpetrato ai giornalisti in quanto tali, quando sappiamo che gli ucraini non avevano nulla contro Rocchelli mentre i servizi segreti russi avevano parecchio contro Mironov, per tanti anni impegnato nel Partito Radicale Transnazionale e negli anni ’80 (in piena Perestroijka!) rinchiuso in un gulag. Ma appare strabiliante che la corte abbia deciso di “appiattirsi” su questa ricostruzione senza considerare alcuna delle obiezioni difensive, e trascuriamo le numerose imprecisioni lette in sentenza, una tra tutte che Markiv si fosse unito «agli insorti» o che il movimento separatista sia nato dopo l’indipendenza ucraina (dopo il 1991 quindi).

Processato l’unico processabile

La memoria del collega Rocchelli e del compagno Mironov meriterebbe, a nostro avviso, una lettura ben più complessa e approfondita dei fatti, piuttosto che l’identificazione sbrigativa di un colpevole nell’unico individuo perseguibile in Italia, in quanto italo-ucraino, tra quelli presenti a Sloviansk (in collina o dalla parte opposta) quel giorno. E lo Stato ucraino, a sua volta, che dal 2014 paga con oltre 10 mila morti la sua vicinanza geografica con l’autoritarismo e l’arroganza del regime di Putin, andrebbe piuttosto tutelato che accusato di perpetrare (attraverso i suoi soldati) atti in violazione di convenzioni internazionali in un contesto di combattimenti militari incrociati.

@MaxMelley