lego popolo 611

Una diarchia e un prestanome. Questo nei fatti è l’assetto di governo dell’attuale stagione politica. Naturalmente c’è ancora la fictio dei termini costituzionali: Presidente del Consiglio, Vice Presidente (due) e Ministri, dell’Interno l’uno e dello Sviluppo Economico l’altro. Che si tratti di una fictio davvero “formalistica” lo si capisce proprio attraverso i termini e, più specificamente, attraverso il loro cumulo. Infatti i diarchi realizzano la loro “diarchia” cumulando i ruoli di Vice Presidente del Consiglio e di Ministro. Attenzione! Cumulando, non tenendo un semplice “interim”, che è una supplenza provvisoria fino alla nomina di un nuovo ministro.

Questa situazione ministeriale mi sembra del tutto inedita nella storia settantennale della Repubblica Italiana (se non ricordo male, una eccezione vi fu in passato, ma in relazione ad un settore specialistico), determinando una concentrazione del potere di intervento e programmazione governativa in due persone che possono muoversi a tutto campo, al di là delle specifiche competenze di settore. Il Presidente del Consiglio? Un avvocato, “del popolo” naturalmente, ben vestito. Gli altri ministri? Alcuni sono inesistenti, salvo il caso - vaccini sul cui intervento ministeriale è meglio stendere un velo di pietoso silenzio. E poi, ridotti all’angolo, due ministri dai portafogli strategicamente decisivi per la linea politica di un qualsiasi governo: Economia ed Esteri. Ma nel nostro caso sono all’angolo, appunto. Si salva il Ministro delle Infrastrutture, per l’asse strettissimo che ha con il suo Vice-Presidente. C’è infine, nell’ombra fino ad ora, il Ministro per i Rapporti con la UE, il quale ha sempre in mente un piano B, che è una cosetta da niente, capace, però, se fosse realizzata, di modificare profondamente il sistema di alleanze europeo.

Questa, in poche battute, la situazione, nella quale a me sembra emerga chiaramente che il potere, quello operante in fatto, prevalga su quello disegnato dalla nostra forma costituzionale.

Si dice: così vuole la maggioranza del popolo italiano. Gli applausi ai diarchi in occasione della tragedia di Genova ne sono testimonianza e prova. Essi sono stati applauditi perché sono i testimonial del “cambiamento”. Allora, se sono così tanto condivisi perché impersonano il “cambiamento”, c’è da chiedersi: il popolo italiano è cambiato, eleggendo rappresentanti a sé coerenti? Perché se cambiano i governanti, vuol dire che i governati, che li eleggono, a loro volta hanno operato un cambiamento. Per esempio hanno cominciato a pagare davvero le tasse, perché solo disponendo di un congruo bilancio attivo si possono fare sia la flat tax che il reddito di cittadinanza. Altrimenti sarebbe paradossale che in un paese dove l’evasione fiscale raggiunge livelli inusitati, l’uomo comune anziché cambiare lui per primo ed imparare a fare il “cittadino” applauda a chi fa propaganda di cambiamenti nella gestione dello Stato. Come dire, che l’individuo italiano, in media, vorrebbe solo essere assistito (in vari modi) per farsi “i fatti propri”.

Infatti, temo sia proprio così: l’italiano in media non è cambiato affatto. Se l’Italia è ormai ridotta alla stadio di colabrodo lo si deve proprio al suo popolo, dal quale viene la classe politica nel suo insieme e vengono tratti gli amministratori dei vari Enti, territoriali e non; lo si deve ai comportamenti dell’uomo comune, per il quale eludere o infrangere norme di comportamento civile è diventata un’abitudine; lo si deve ai genitori che non insegnano ai figli il rispetto per la scuola e per chi vi opera; lo si deve a chi usa internet per farsi una specie di informazione (che scambia per “sapere”) nei più svariati campi, senza studiare seriamente per farsi una cultura; lo si deve a chi, con l’ossessione del danaro, intraprende azioni le più squallide; lo si deve a chi preferisce ottimizzare nell’immediato la ricchezza conseguita dai propri padri, anziché investire per la crescita del paese e della società del lavoro; lo si deve a che ha perduto ogni senso critico, ma si adagia ripetendo, magari anche sconsolatamente, “che vogliamo farci, la realtà è questa e dunque ognuno, (aggiungo io: chi può e se può), deve trovare il proprio profitto”.

Siamo in “democrazia”, appunto; quindi nulla quaestio. Se così vuole il popolo, le chiacchere stanno a zero. Allora, però, è proprio su questo binomio “democrazia – popolo”, così inflazionato e che sembra basti ripeterlo per giustificare ogni atto sociale e governativo, che occorre sostare a riflettere.

La prima cosa che balza agli occhi è che il termine “democrazia” di per sé dice qualcosa di assai generico: che il potere spetta al popolo, ma non dice nulla circa il funzionamento di questo sistema di potere. Una tale genericità probabilmente dipende dalla circostanza che dal secondo dopoguerra in poi l’Europa ha conosciuto lo stabilizzarsi di democrazie rappresentative, liberali e fondate sullo Stato di diritto. Ragion per cui il termine “democrazia” automaticamente significa anche la partecipazione del popolo alla formazione delle istituzioni governanti attraverso “libere” elezioni: “libere” perché il popolo votante può liberamente scegliere tra diverse visioni politiche rappresentate da diversi partiti. In questo contesto, nel senso comune e nel linguaggio abituale, “volontà popolare” e “democrazia” sembrano quasi sinonimi, da usare retoricamente per gli scopi più disparati.

Il problema, però, è tutto qui: il significato autentico del binomio dipende da come funziona il sistema di potere imputato al popolo. Per esempio: se la volontà del popolo si manifesta per via rappresentativa o per via diretta; se può scegliere tra più opzioni politiche oppure deve solo confermare o respingere un’unica indicazione; se dà la sua investitura ad una figura ritenuta carismatica. In tutti e tre queste ipotesi non v’è dubbio che sia lecito dire che il potere di governo è legittimato dal popolo. Ma si deve subito aggiungere che si tratta di tre modelli democratico-popolari totalmente diversi. Per capirlo, basta scorrere alcuni eventi recenti.

Se è vero che i paesi europei del dopoguerra sono tutti democrazie liberali fondate sulle libere rappresentanze parlamentari, è altrettanto vero che assai di recente un tale Orban ha qualificato quella ungherese una democrazia “illiberale”; anche il funzionamento della democrazia polacca ha preso una piega autoritaria e la Turchia non è da meno, e così via. Qualche decennio fa, quando esistevano le due Germanie, quella dell’Est vantava la denominazione “Repubblica Democratica Tedesca”. Questi esempi mettono in luce che il binomio democrazia – popolo può avere una declinazione liberale ed una autoritaria. E ancora: l’acronimo URSS non significa forse “Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche”? Cosa c’è di più “democratico” del socialismo, tanto più quando questo si professa “reale”? Oppure ricordiamo la Repubblica Popolare Cinese, che ieri come oggi ha ben poco di un sistema di funzionamento effettivamente rappresentativo.

Questi esempi conducono ad una osservazione: per comprendere l’esatto significato del termine “democrazia” e la sua funzione legittimante, occorre mettere a fuoco il rapporto che si instaura tra popolo e potere di governo.

Qui occorre conoscere un po’ di storia. Comincio con il chiarire che in questo testo, a differenza del precedente, uso il termine “popolo” nel significato generico proprio del linguaggio comune: come insieme di individui che vivono gomito a gomito in uno spazio comune. Questa definizione consente di capire l’antica distinzione, per la quale il popolo coincideva con la moltitudine dei diseredati, dei poveracci o di coloro che dovevano prestare il loro lavoro per vivere. In questo senso il popolo si distingueva dalla aristocrazia o dalla nobiltà che non viveva gomito a gomito, ma nei propri castelli e dimore. Tale tipo di “popolo” non ha mai fatto la storia, non ha mai fatto rivoluzioni, semmai solo rivolte. Le rivoluzioni le hanno progettate le élites intellettuali e spesso il popolo le ha fatte fallire come fu per la Rivoluzione napoletana del 1799 o per la Comune di Parigi. Il popolo, storicamente, è sempre stato utilizzato, e si è fatto utilizzare, da chi voleva conservare il potere o da chi voleva prenderlo, legittimando ora l’uno ora l’altro a seconda della percezione della vittoria o del fallimento che gli attori del potere trasmettevano. Il popolo francese rinnega Napoleone, che in suo nome (si badi) si era investito Imperatore, con una disinvoltura disarmante.

Quando, nell’800, dal popolo si distingue la “borghesia” questa è per sua natura conservatrice e statalista; produce un sistema di governo costituzionale che è “liberale”, ma che non può definirsi “democratico” nel senso di “popolare”, perché, pur essendo un sistema rappresentativo (dunque “liberale”), è limitato su base censitaria, quindi non coinvolge il popolo.

Questo è uno snodo importante per comprendere il binomio democrazia – popolo: perché il governo sia legittimamente democratico occorre che abbia una investitura autenticamente popolare. Questo passaggio si attua nel ‘900, dapprima con due totalitarismi (quello sovietico e quello nazional-socialista) ed una dittatura (quella fascista). Si tratta di tre forme di governo fondate sulla partecipazione diretta del popolo, per acclamazione carismatica, per adesione convinta e comunque per obbedienza (i dissidenti, in percentuale, sono assai pochi); da questo punto di vista sono regimi autenticamente “demo-cratici”. Nel secondo dopoguerra il binomio trova attuazione attraverso il suffragio universale unitamente, però (questa è una condizione necessaria e dunque decisiva), al pluralismo partitico ed alla rappresentanza dei corpi intermedi, sotto la garanzia dello “Stato di diritto”.

Oggi, come ho detto, continuiamo a usare i due termini, democrazia e popolo, in modo legittimante il potere, tanto siamo assuefatti all’assetto costituzionale che da ultimo ho descritto e non ci accorgiamo che viviamo una condizione umana ed una situazione sociologica completamente diverse.

Il suffragio universale permane, ma senza una vera e propria struttura di intermediazione partitica; la partecipazione diretta è sempre più invocata, praticata e utilizzata per conforto al potere. L’ambiente sociale è profondamente disarticolato in una miriade di particolarismi egoistici di massa; il popolo si incarna in una moltitudine di consumatori del web e della tecnologia digitale. A questo “popolo” appartengono sia i governati che i governanti, tutti indistintamente consumatori e operatori della tecnologia digitale, la quale è responsabile di una vera e propria mutazione antropologica. Essa, infatti, per il suo modo di stimolare le aree del cervello, allena la parte reattiva, e dis-allena quella riflessiva. Questo spiega il successo di coloro che si presentano come portatori di posizioni decisorie in senso antagonista; di coloro, insomma, che mostrano i muscoli. Le posizioni antagoniste spingono, infatti, alla reazione immediata (magari sulla pelle degli altri) a tutela del proprio IO viscerale, non a caso definito “pancia”, creando unione sì (maggioranze politiche e sociologiche), ma individualisticamente anonima, messa in forma dal personaggio muscolare. Le derive autoritarie ricordate in precedenza, espressione al tempo stesso di sistemi formalmente democratico-rappresentativi, ne sono la testimonianza. Al contrario, le posizioni dialogiche e solidaristiche, che implicano considerazione dell’alterità umana e sociale, e dunque riflessione e ragionamento, appartengono, appunto, all’area cerebrale della riflessività e, dunque, nell’attuale contesto comunicativo, sono destinate ad essere perdenti.

La cosa grave è che a questo tipo di “popolo” non importa più nulla della forma di governo, né della permanenza dello “Stato di diritto”, né dei “princìpi”; vuole solo poter dire la sua sul web e divulgarsi in immagini, illudendosi di contare; ma questa “sua” esibizione linguistica e iconica è solo quella dettata dalla propria solitudine egoica. Non vedo spazi per un progetto sociale e politico fondato sulla riflessione e sul ragionamento; non è in grado di “forare lo schermo”, come si diceva un tempo. Purtroppo.