giletgialli

La rivolta dei gilet gialli è solo l’ultimo episodio di una forma di partecipazione alternativa alla gestione politica della cosa pubblica. Prima "Podemos", poi la Brexit, l’attivismo via Web, la retorica legata al populismo, l’inseguimento dei sondaggi quotidiani e così via; sono tutte forme di partecipazione caratterizzate dalla sostituzione della mediazione che fa capo alla rappresentanza partitica con una manifestazione diretta e immediata della cosiddetta “volontà popolare”.

Tale alternativa di fondo ne rende manifeste altre, così inquietanti da aprire scenari inediti: campagna / città; periferie / centro; élite / popolo; governo tecnocratico-finanziario / sovranità popolare.

L’insieme di tali spaccature diffonde sempre più l’idea di una crisi dell’istituto della democrazia rappresentativa a beneficio di formule di governo lato sensu personalistico-autoritarie, pur con aspetti tra loro differenti, che si legittimano comunque con il richiamo ad un fondamento democratico popolare. Ne fa una rassegna un testo pubblicato dalla Oxford University, curato dagli studiosi M.A.Graber, S.Levison, M.Tushnet e recensito sul “Domenicale del Sole 24 Ore” da Sabino Cassese: Costitutional Democracy in crisis?.
Fatte queste premesse, vengo al punto o alle questioni.

Innanzitutto occorre ricordare che le democrazie rappresentative, che si sono affermate in Europa nel secondo dopoguerra, sono state fondate e si sono rette su due pilastri: la redistribuzione del reddito e i partiti politici. Pilastri, che hanno consentito la pratica del suffragio universale come metodo rappresentativo. Perché il suffragio universale si regge su quei due pilastri? Per le seguenti ragioni.

La prima. La rappresentanza politica non è una rappresentanza di tipo privatistico-negoziale; in altre parole, chi vota non elegge un personaggio, affinché soddisfi i propri personali e privati interessi (come avviene appunto nella rappresentanza negoziale), ma un soggetto che opera in uno spazio pubblico per il governo della “cosa pubblica”, che evidentemente trascende, per statuto logico, gli interessi personali (questa è la ratio che giustifica l’art. 67 della nostra Costituzione, circa il divieto di mandato imperativo, che oggi, con grande disinvoltura e altrettanta ignoranza, si vuole mettere in discussione).

Di qui la seconda ragione. La redistribuzione del reddito, sia in termini direttamente economici che in termini di servizi, consente una compensazione pragmatica tra visioni del mondo e interessi in gioco strutturalmente opposti: l’interesse del capitale privato, consistente nel conseguimento del profitto, risponde a logiche operative materialmente opposte e anche confliggenti con l’interesse del lavoro subordinato. La compensazione avviene attraverso quell’intervento pubblico nell’economia che dà vita allo “Stato sociale”, per la caratteristica di quest’ultimo di essere sottratto, nella sua azione, nei settori socialmente sensibili (pensiamo soprattutto alla politica per l'occupazione e la stabilità del posto di lavoro, all'istruzione e alla sanità), alle regole del profitto e con esse del mercato. La redistribuzione del reddito consente, in particolare, il formarsi di quella “classe media”, che nulla ha a che vedere con il concetto di “borghesia”, ma che sul piano sociale forma quell’elemento di stabilità del sistema, che rappresenta lo zoccolo duro per la tenuta della rappresentanza democratico-parlamentare.

La terza ragione. La presenza di partiti, come soggetti fondati su di una visione della società e portatori di progetti politici, all’interno di un quadro di coerenza istituzionale, garantito dalla Costituzione. Il partito politico, così configurato, funziona da strumento di mediazione, sia sul piano organizzativo sia su quello culturale e politico-progettuale, tra le istanze della base popolare e le decisioni per l’indirizzo di governo di una società. Le prime, le “istanze”, sono quelle proprie della vita delle persone, costituite dalle esigenze, dalle aspettative, dalle incertezze e dai disagi di ciascuno di noi, differenti secondo la condizione economica, le esperienze della vita, il ceto, la cultura, l’educazione, la formazione e così via; le seconde, le decisioni, rispondono alla necessità di trascendere il piano della pluralità individualistica per realizzare quella sintesi capace di allestire un programma di governo.

Tra il piano della gente comune, che ho definito in passato l’ “orto di casa”, e quello del governo vi è uno scarto, anche qui strutturale, di “tempo” e di “spazio”. Il tempo e lo spazio nel quale vive la propria vita l’uomo comune è quello che ciascuno di noi può controllare e governare secondo quei diversi status cui ho accennato; in breve è quello che sente appartenergli. Faccio un esempio del tutto attuale. Perché la periferia sopporta il fenomeno migratorio con grande disagio e spesso con rabbia, mentre il centro delle città è più disponibile ad una sua comprensione e pacifica gestione? Per la ragione che l’“orto di casa” di chi vive in periferia è sottoposto ad una spazialità angusta (l’immigrato occupa la porta accanto o è accampato di fronte alla casa) e a una temporalità ridotta alla giornata (mettere insieme il pranzo con la cena in un contesto di disoccupazione o di lavoro effimero e precario); l’“orto” di chi vive in un quartiere centrale gode di spazi più ampi (l’immigrato sta a di fronte al supermercato, ma non nella casa accanto) e di una temporalità di maggiore respiro, conseguenza di una condizione economico-lavorativa che consente una diversa progettualità della vita. In due parole: la pancia vuota non ha tempo di pensare; quella piena sì (Feuerbach non aveva tutti torti!).

I partiti politici costituiscono appunto quel soggetto di mediazione, capace di filtrare le istanze provenienti da questi vari “orti”, per raggiungere una sintesi politico-progettuale, ciascuno secondo la propria visione del mondo, quella che tedeschi chiamano Weltanschauung, sulla quale costruire un possibile ordine sociale.

Bene! Il contesto che ho descritto a fondamento delle democrazie rappresentative e parlamentari del secondo dopoguerra è venuto meno. Tre le cause: la caduta del muro di Berlino che è stata interpretata come l’affermazione storica definitiva del modello capitalistico; la globalizzazione tecnocratico-finanziaria che ha prodotto la consunzione del “politico” come pensiero; l’affermazione delle tecnologie comunicative (ICT). Dirò di più: è proprio l’affermazione di queste ultime che ha concretizzato il modello teorico e operativo insito nelle due cause precedenti.

Mi spiego. Le tecnologie comunicative operano in una direzione fondamentale: la sostituzione dell’immagine sulla parola, che ha come naturale conseguenza la forza immediata dell’“impatto” sulla “lentezza” temporale del pensiero. La “pancia” sulla “testa”; attenzione! la pancia è necessariamente personale e quindi individualistica, la testa può aprirsi anche al mettere in comune delle riflessioni. Esito pratico: la reattività si afferma sulla riflessione e, quindi, l’operatività individualistica ha la meglio sui processi di mediazione e di sintesi delle diversità.

Il fenomeno, sul piano politico, cominciò negli anni ’90, con la diffusione televisiva della comunicazione politica in chiave spettacolare, dove si affermò la capacità del singolo personaggio di “bucare lo schermo” (il salotto di Vespa e il firma del contratto di Berlusconi); conseguenza: una iniziale, e poi crescente, personalizzazione della politica. Protagonista vincente Berlusconi e il suo modello comunicativo che divenne modello comune. Da qui cominciò ad impoverirsi la funzione di mediazione organizzativa e culturale dei partiti cosiddetti “tradizionali”. La vera e propria loro consunzione avviene oggi (cominciata già da qualche tempo) con l’affermazione definitiva e capillare delle ICT. È un fenomeno che investe, ormai, quasi tutti i settori in cui si svolgono le attività umane. Lo sappiamo tutti: esse funzionano in modo da entrare direttamente, direi attimo per attimo, nella vita privata e quotidiana di ciascuno, mescolando esibizione personale e immagine pubblica, senza distinguere tra rapporti genericamente sociali e affettivo-personali e tra reattività individuale e sensibilità verso gli altri.

Voglio ricordare ancora una volta quanto sottolinea Luciano Floridi: “… le ICT digitali (le tecnologie della informazione e della comunicazione) … sono divenute forze ambientali, antropologiche sociali e interpretative. Esse creano e forgiano la nostra realtà fisica e intellettuale, modificano la nostra autocomprensione, cambiano il modo in cui ci relazioniamo con gli altri e con noi stessi, aggiornano la nostra interpretazione del mondo e fanno tutto ciò in maniera pervasiva, profonda e incessante” (La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina, Milano 2017, p. IX).

Le tecnologie digitali determinano, quindi, quella che mi è già capitato di definire una vera e propria mutazione antropologica. In un tale, inedito, contesto, dove è venuta meno ogni mediazione tra il mondo dell’Io e il configurarsi di un Noi sociale, è ancora possibile una efficace rappresentanza politico-parlamentare fondata sul suffragio universale? Lo so, solamente il farsi questo interrogativo appare politicamente assai scorretto, perché viola ogni retorica democratica. Ma aggiungo qualcosa di ancora più drammatico: ha ancora senso politico, in senso “vero”, una rappresentanza parlamentare? Gli amanti della democrazia del Web lo hanno già detto: in futuro il Parlamento potrà divenire inutile. E vi è ancora un altro profilo che spinge a quell’interrogativo così politicamente scorretto: il mondo è immerso in una situazione di profondo mutamento geopolitico e climatico-ambientale, con conseguenze che potranno essere devastanti sulle abitudini di vita sul pianeta.

La domanda è: si può governare sotto le pulsioni del tutto giustificate della gente comune, la quale non può non vivere, e ciascuno a suo modo, la propria quotidianità; si può governare senza mediazioni e filtri capaci di dar vita ad una competente cultura di governo, in primo luogo fronteggiando efficacemente non le ICT come strumento, il ché sarebbe impossibile, ma orientandole verso diverse dinamiche comunicative (e questo compito solo di persone culturalmente esperte)? È pensabile davvero che la potenza delle lobbies tecnocratico-finanziarie globali possa essere sottomessa da una protesta populista e “sovranista”? Rumorosa quanto si vuole, ma con quale effettività sul piano del potere di fatto con il quale quelle lobbies hanno sottomesso lo “Stato sociale” del secondo dopoguerra? Al di là delle chiacchiere, questo è il mondo nel quale stiamo vivendo.