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Caso 1: il sig. Giuseppe, stimato uomo di affari, una mattina viene bruscamente messo al corrente di una oscura incriminazione nei suoi riguardi. Decide pertanto di rivolgersi a uno stimato avvocato, ma dopo mesi e mesi senza alcuna soluzione e uno straccio di notizia concreta sulle accuse che gli vengono addebitate, decide sfiduciato di licenziare il proprio legale e di disinteressarsi della propria difesa. Sarà, quindi, condannato senza apparire mai dinanzi al proprio Tribunale.

Caso 2: Il giovane Pino, allegro e studioso teenager, terminate le lezioni si reca in spiaggia per rilassarsi dopo gli impegni scolastici, quando viene circondato e aggredito da alcuni ‘bulli’ della zona per il suo goffo aspetto. Strattonato e percosso dal ‘branco’, perde dal proprio zainetto un grosso libro dalla copertina rigida. Uno dei sinistri figuri prende il volume e glielo scaglia contro con l’intento di colpirlo. Pino riesce a schivare il colpo, che tuttavia ferisce alla testa Eugenio, un amico di Pino nel frattempo accorso per aiutare il proprio compagno. Alla visione della vistosa ferita sanguinante, tutto il gruppo si da alla fuga, mentre il solo Pino prova a rianimare il compagno che giace esanime al suolo.

Giunta sul luogo, la polizia giudiziaria interroga Pino, unico testimone dell’aggressione, il quale ammette di essere il proprietario del libro, ma di non averlo lanciato in direzione del proprio amico. Non riesce tuttavia a individuare i reali autori dell’aggressione ed Eugenio, ancora senza sensi, non può confermare la propria innocenza. La versione di Pino non convince completamente gli Ufficiali di PG intervenuti e viene così ritenuto unico indiziato del delitto e, consequenzialmente, iscritto dal Pubblico Ministero nel registro degli indagati.

Senza perdersi d’animo, Pino si reca in ospedale per informarsi sulle condizioni del proprio amico, dove, da alcuni parenti alla lontana, gli viene riferito che Eugenio è in coma a causa della ferita alla testa inferta da un certo Pino, “delinquentello” della zona. Sfiduciato e rammaricato dalla notizia che lo vede già “condannato” quale autore del reato, Pino lascia la scuola fino alla ripresa di conoscenza dell’amico Eugenio, il quale lo scagiona definitivamente. Purtroppo, a causa delle numerose assenze, Pino dovrà ripetere l’anno scolastico.

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Se ai lettori, specie quelli che operano ‘nel settore’, le paradossali disavventure di Giuseppe e Pino dovessero apparire in qualche modo familiari, sarebbe confermata la necessità di riflettere seriamente su quale direzione indicare alla Giustizia, in particolar modo quella penale, che tocca al cuore gli interessi e le libertà più intime dell’individuo.

Seppur distanti dalla contemporaneità nostrana, i casi sopra riportati riprendono, con alcuni minimi aggiustamenti, le denunce di illustri autori all’allora malato sistema giudiziario, dipinto con estrema maestria e profondità da Kafka e Collodi nelle loro più celebri opere letterarie “Il Processo” e “Le avventure di Pinocchio”, datate rispettivamente 1925 e 1883. 

Pericolose similitudini che qualsiasi prospettiva di riforma del sistema penale deve tenere in considerazione, non potendo permettersi moderni Joseph K. e Pinocchio, sottoposti al rischio di essere ingiustamente stritolati dai miopi tentacoli della “Dea bendata”, con irrimediabile danno per la fiducia nel sistema giudiziario.

Non si fraintenda. È indubbio che la credibilità della minaccia penale si alimenta della pronta assicurazione alla giustizia dei criminali, scopo principale di qualsiasi ordinamento. Tuttavia, bisogna stare ben attenti a non lasciarsi trascinare in semplicistiche e distorte associazioni, che vorrebbero immediatamente assicurata alla giustizia qualsiasi persona accusata di un reato, dimenticando le peculiarità (giuste o sbagliate, ci arriveremo) del nostro sistema e dando per scontati due assunti invece da dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio: la colpevolezza dell’accusato e la correttezza del teorema accusatorio.

Perché non va sottaciuta la fallacia dell’essere umano, di cui si compone necessariamente anche la magistratura, la quale può provare a limitare le contaminazioni soggettivistiche all’interno del ragionamento giuridico affidandosi ai pilastri argomentativi forniti dalla scienza penalistica e ad una spiccata sensibilità d’animo (pur presente in molti magistrati che ho incontrato).

Ma se una certa dose di umana intuizione è ineliminabile nel processo decisionale di qualsiasi individuo, deve allora essere il sistema in cui opera a stimolare il magistrato a profondere il massimo sforzo tecnico-giuridico per la ricerca della verità, compito per il quale la macchina giudiziaria italiana sembra oramai drammaticamente inadatta per le seguenti (non esaustive) ragioni:

- La rinuncia da parte del Legislatore penale di farsi sovrano illuminato delle residuali scelte di politica criminale (termine inteso nella sua accezione pluralista, ossia anche come scelta di non codificare come reato alcune condotte di minor offensività), che spesso preferisce assecondare, invece di educare, la insaziabile sete di giustizia dell’elettorato, il cui ‘faro’ non potrà mai discostarsi dall’immediato (e illusorio) vantaggio che il ‘pugno duro’ porta con sé;

- Il consequenziale aumento delle fattispecie penali che irrigidisce eccessivamente le libertà di scelta dell’individuo senza tenere conto delle peculiarità del contesto storico e sociale in cui si innesta (solo per fare un esempio, si pensi al mancato aggiornamento dei delitti di falsità nell’epoca delle autocertificazioni, il cui linguaggio, peraltro, non è sempre di immediata comprensione). Con perdita di orientamento e fiducia nel sistema da parte dei cittadini, in perenne dubbio sulla liceità o meno della loro condotta (si stupiranno i lettori a scoprire che anche la più banale delle condotte, come quella di caricare una foto di gruppo sui social può, a talune condizioni, portare e contestazioni di natura penale);

- La sovresposizione della magistratura che, nel tentare di ridipingere per via interpretativa la volta dell’edificio penale, si è trovata obbligata a creare giudizialmente (invece di applicare) la norma penale, non sempre con gli esiti auspicati di restringerne il raggio di azione;

- L’impossibilità per la magistratura di fare fronte, con le note carenze di organico, in tempi ragionevoli a tutti i procedimenti penali per le innumerevoli fattispecie penali, stante l’obbligo di attivare quantomeno le indagini preliminari per ogni notizia di reato (sancito dall’art. 112 della Costituzione) e quello di richiedere una specifica motivazione soltanto per le richieste di archiviazione e non anche per quelle di rinvio a giudizio, rendendo l’ultima strada decisamente più accattivante e meno defatigante, specie per gli operatori più disillusi e meno scrupolosi;

- Nell’illusoria pretesa che ogni procedimento riceva, almeno formalmente, uno screening giudiziario, si è obbligata la magistratura a graduare l’intensità di sforzo e di attenzione da dedicare ai diversi fascicoli, rischiando così di privare delle peculiari garanzie di obiettività tecnica quei procedimenti meno ‘meritevoli’, lasciati possibilmente in balia di scelte intuizionistiche ovvero legate anche a logiche deflattive con rinvii delle udienze di 6 o 12 mesi e scelte sempre meno coraggiose (per farsi un’idea, basterebbe domandare a chi frequenta le aule di Giustizia quanti procedimenti penali si chiudono nella fase ‘filtro’ dell’udienza preliminare).

Le precedenti affermazioni sono confortate dalle statistiche. Stando ai dati raccolti dal Ministero della Giustizia nel maggio del 2018, infatti, la durata media di un processo penale nei due gradi di merito (esclusa, quindi, la Cassazione) nel 2016 è stata di 1605 giorni (in caso di giudice di primo grado collegiale) e di 1435 giorni (se il primo grado si è svolto invece dinanzi all’organo monocratico).

Inoltre, la Relazione sull’amministrazione della Giustizia dell’anno 2017 certifica che la maggior parte delle sentenze dichiarative della prescrizione (il 52,4%) sono emanate durante la fase delle indagini preliminari o in udienza preliminare, cioè immediatamente prima dell’apertura del dibattimento. Ciò non toglie che un ruolo rilevante ai fini della prescrizione lo giocano anche le scelte di strategia difensiva, talvolta meramente dilatorie, sul cui spesso si decide la sorte del processo.

Ebbene, siamo così sicuri che basterà aumentare ulteriormente il termine per la prescrizione per abbreviare automaticamente la durata dei processi o evitare atteggiamenti dilatori? Oppure, come si teme, diluendo la ‘minaccia’ della prescrizione, senza toccare il carico di lavoro dei magistrati o rimpolparne grandemente l’organico, si finirà presumibilmente per allungare ancora di più i tempi del giudizio e incentivare ancor di più il ricorso a strategie dilatorie?

È sulla base di tali incertezze che va affrontato, senza pregiudizi o arroccamenti, il discorso sulla riforma del sistema penale, avendo come obiettivo esclusivo quello di garantirgli l’efficienza che merita, vero elisir di lunga vita grazie al ritorno di fiducia da parte di operatori, cittadini, imputati e vittime.

Con due premesse imprescindibili: i) piena fiducia, salvo propria contraria, nell’operato di una magistratura messa in grado finalmente di svolgere con passione, competenza, dedizione e autorevolezza le proprie funzioni; ii) la necessità di garantire una pena certa, effettiva e in tempi brevi, ma solo in seguito allo svolgimento del rito ‘scaro’ del processo, limitando al massimo ogni invasione della sanzione penale, anche se ‘mascherata’, senza le garanzie del giudizio (penso, in particolare, alle misure di prevenzione).

La scelta è quindi netta e riguarda il metodo: occorre decidere se dotare il nostro magistrato di occhiali con una luccicante montatura dorata, apparentemente capaci di attrarre rispetto e autorevolezza, ma privi delle lenti che gli permettano di guardare a fondo (e al cuore) ogni vicenda procedimentale; oppure, viceversa, dotarlo finalmente di lenti performanti.

In altre parole, considerate le storiche difficoltà di riforma del codice penale nella ‘sede politica’, legata a doppio filo alla ‘pancia’ dell’elettorato, e l’effimera speranza che allungando i tempi di degenza il paziente guarisca miracolosamente da solo, forse le redini per la rinascita della Giustizia penale vanno affidate, con consapevolezza e ponderazione, all’organo tecnico, ossia la magistratura, svincolandolo da una obbligatorietà dell’azione penale che, da garanzia indefettibile di uguaglianza, si è trasformata, nella incapacità del sistema penale di farsi realmente extrema ratio, in alibi per provvedimenti notarili e poco coraggiosi a danno dei malcapitati sig.ri Giuseppe e Pino.