Tanto tuonò che alla fine piovve: la Corte costituzionale ha reso noto di avere dichiarato costituzionalmente illegittimo il Porcellum!

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In attesa della pubblicazione della sentenza, momento dal quale decorreranno i suoi effetti giuridici (sempre che la Corte non indichi un momento successivo), non è possibile svolgere riflessioni critiche sulla annunciata decisione, per la semplice ragione che non se ne conoscono le motivazioni, soprattutto quelle relative all’ammissibilità della questione. Cosa che, per la verità, sembrava essere l’ostacolo più duro da superare, posto che in caso affermativo era quasi scontato il giudizio di incostituzionalità di una legge, che in effetti da subito è sembrata presentare gravi vizi di legittimità costituzionale. Basti pensare alle note critiche al fenomeno dei parlamentari c.d. “nominati”, ma anche agli effetti distorsivi che essa finiva col produrre sull’impianto complessivo del sistema istituzionale, potendo addirittura determinare l’elezione di un Capo dello Stato minoritario.

Pertanto, fermo restando che la decisione della Consulta potrà essere annotata soltanto dopo che ne siano state rese note le motivazioni, qualche riflessione può, invece, compiersi sulle conseguenze politiche e giuridiche dell’annunciata dichiarazione di incostituzionalità. Al riguardo, prenderemo separatamente in esame i due diversi vizi rilevati, cioè le liste bloccate e il premio di maggioranza.

Sulle liste bloccate, la Corte ha annunciato di avere dichiarato la loro illegittimità “nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza”. Tale affermazione - che per inciso è pienamente condivisibile perché nella (ancora) vigente legge elettorale manca qualsiasi meccanismo di collegamento democratico tra gli elettori e gli eletti, i quali, sono tutti, chi più chi meno, parlamentari per grazia ricevuta (dal loro leader di partito) -  toglie qualsiasi legittimazione politica ai parlamentari in carica. Ciò determina una prima paradossale conseguenza di natura politico-istituzionale: la presentazione di dimissioni di massa di parlamentari non sarebbe più un atto eversivo, ma, invece, il più genuino atto di rispetto nei confronti della volontà del Giudice delle Leggi, che porrebbe il Capo dello Stato di fronte all’inevitabile scelta di sciogliere le Camere. D’altronde, è bene ricordare che il giudizio di costituzionalità è stato promosso nell’ambito di un procedimento giurisdizionale, nel quale la parte ricorrente ha lamentato la violazione dei propri diritti politici, che l’annunciata decisione conferma in toto. Quindi, il Capo dello Stato può restare impassibile di fronte ad una manifesta e plateale violazione dei diritti politici dei cittadini oppure deve avere il coraggio di intervenire per ripristinare la legalità costituzionale, consentendo al corpo elettorale di eleggere in un modo costituzionalmente conforme i propri rappresentanti?

Vi è poi una questione giuridica. Va, infatti, ricordato che la “dichiarazione di incostituzionalità comporta la caducazione dei soli effetti non definitivi e, nei rapporti ancora in corso di svolgimento, anche degli effetti successivi alla pubblicazione della sentenza della corte costituzionale, restando quindi fermi quegli effetti anteriori che, pur essendo riconducibili allo stesso rapporto non ancora esaurito, abbiano definitivamente conseguito, in tutto o in parte, la loro funzione costitutiva, estintiva, modificativa o traslativa di situazioni giuridicamente rilevanti (Cass. Civile, sez. III, 11-04-1975, n. 1384)".

Ma, come da prassi, non è ancora intervenuta la convalida delle elezioni. Quindi, si potrebbe sostenere che la declaratoria di costituzionalità, per adesso solo annunciata, dovrebbe impedire la convalida degli eletti, a meno di non registrare l’ennesimo paradosso italiano per il quale si fa decadere, giustamente, un senatore per un’intervenuta condanna penale definitiva, secondo i normali standard di uno Stato di diritto, e poi si convalidano tutti gli altri, malgrado siano stati eletti sulla base di una legge incostituzionale. Né mi auguro che a qualche genio non venga in mente di accelerare le operazioni di convalida, facendo finta che nel frattempo non sia successo niente. Giuridicamente non farebbe una piega, perché ancora la sentenza di incostituzionalità non esiste, ma sarebbe ancora benzina sul fuoco per la c.d. antipolitica, che purtroppo spesso è anche disaffezione per una cattiva politica.

Vi è poi la questione del premio di maggioranza. Qui la Corte ha annunciato “l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione”.

Questo sembra essere l’aspetto di maggior rilevanza costituzionale, di cui, forse, non sono state calcolate tutte le effettive conseguenze, anche giuridiche. Infatti, se anche prevalesse un orientamento che considerasse comunque esauriti gli effetti giuridici dei singoli eletti, andrebbe considerato che la legge elettorale produce un preciso effetto giuridico temporalmente prolungato, vale a dire la rappresentanza del corpo elettorale nelle Camere. Ed è indubbio che l’annunciata declaratoria di incostituzionalità riveli che l’attuale rappresentanza parlamentare non è conforme al dettato costituzionale, in quanto abbiamo dei gruppi parlamentari illegittimamente sovradimensionati e altri, quindi, illegittimamente sottodimensionati. Ciò produce conseguenze politiche gravissime, giacché, forse, anche la stessa fiducia al Governo potrebbe essere (è) il frutto di questa artificiosa e costituzionalmente illegittima rappresentazione.

Per semplicità, eviteremo di affrontare la complessa questione della legittimità degli atti legislativi emessi da un Parlamento eletto sulla base di una legge incostituzionale, fatta eccezione per l’ipotesi che la stessa Corte ha avanzato di una modifica della legge elettorale. Qui davvero, col dovuto rispetto, sembra di assistere ad uno dei migliori capolavori del teatro dell’assurdo, nel senso che, al di là della legittimità giuridica, un’operazione del genere sarebbe manna dal cielo per tutti coloro che vogliono incendiare quel poco che resta di un edificio istituzionale che avrebbe bisogno di un’opera di straordinaria manutenzione e che invece subisce continue attività demolitive che, poco alla volta, ne stanno minando le fondamenta, senza che gli occupanti sembrino accorgersene.

L’unica condizione che renderebbe politicamente legittima l’approvazione di una nuova legge elettorale da parte di questo Parlamento sarebbe quella di registrare un consenso unanime, ma non serve spendere molte parole per spiegare che le storie dei supereroi americani sono molti più realistiche di questa ipotesi.

In conclusione, la Corte ha fatto il suo mestiere. Forse, poteva farlo anche prima, sollevando essa stessa la questione di costituzionalità, quando ebbe modo di esaminare le proposte referendarie che poi giudicò inammissibili, ma le cose sono andate così.  Sarebbe, però, illusorio (e, forse, anche dannoso) credere che ciò aiuti a dare un impulso costruttivo  per le riforme e il rilancio economico del Paese. Infatti, l’amara conseguenza di questa annunciata decisione - che nel merito è da condividere, fermi restando i dubbi sull’ammissibilità della questione – potrebbe essere, invece, un ulteriore rafforzamento della disaffezione di larga parte della cittadinanza, qualora i vertici istituzionali ne ignorassero la portata dirompente e la utilizzassero come espediente di comodo per realizzare qualche “riforma” che tenda a prendere tempo e ritardare l’ormai inevitabile redde rationem elettorale.
Forse, siamo ancora in tempo per presentarsi all’appuntamento della presidenza del semestre europeo con un Governo che goda della fiducia di un Parlamento costituzionalmente rappresentativo del corpo elettorale. L’alternativa è un permanente immobilismo regressivo, chiamato stabilità.