Le pensioni? Una variabile indipendente. Parola di Corte Costituzionale
Istituzioni ed economia
L'interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio. Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l'adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.).
La sentenza 70/2015 della Corte Costituzionale sulla perequazione per gli anni 2012 e 2013 delle pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS, al di là degli effetti finanziari, rischia di rappresentare uno spartiacque della legislatura e di autorizzare la tendenza, da sempre presente in ampi settori della maggioranza, per non dire dell'opposizione, di regolare i conti con la riforma Fornero e di ripristinare, vendicando l'oltraggio, qualcosa che somigli allo status quo ante.
Al centro della discussione (a partire da quella nell'unico partito che conta, cioè del PD) non c'è come aggiustare una riforma già ampiamente e generosamente aggiustata (ad esempio, sui cosiddetti esodati), ma come rimuovere la questione di fondo posta dal governo Monti, cioè il superamento dell'idea che la spesa pensionistica debba considerarsi una "variabile indipendente" dall'andamento dei conti pubblici e rappresentare non un oggetto negoziabile, cioè concretamente disponibile per le scelte del legislatore, ma un vincolo inderogabile della politica di bilancio.
Monti e Fornero, per ragioni di necessità, ma con decisioni coerenti con le posizioni scientifiche da entrambi lungamente sostenute nella discussione sul tema, ruppero con questa consuetudine e con l'ideologia dei diritti acquisiti, riallineando bruscamente la spesa previdenziale a standard compatibili con l'esigenza (concretissima, a fine 2011) di allontanare l'Italia dal rischio dell'insolvenza. Quindi fecero, in poche settimane, quello che per vent'anni il sistema politico non era riuscito a fare, con decisioni che apparvero "cruente" per il fatto di essere tardive e quindi prive della gradualità e dell'equità che un'adozione più tempestiva avrebbe reso possibile. Ma se di colpa si può parlare per questo ritardo, a tutti si può addebitare, fuorché al Presidente del Consiglio e al Ministro del Welfare in carica mentre la Troika suonava alle porte di un Paese che appariva senza meno in grado di finanziarsi sui mercati internazionali e di garantire gli impegni di risanamento assunti in sede europea.
Delle drammatiche compatibilità, anche temporali, in cui quella decisione oggi costituzionalmente censurata fu assunta, nella sentenza della Consulta non sembra letteralmente esserci traccia. Al difetto, denunciato dalla Corte, di giustificazione e dunque di proporzionalità e ragionevolezza del blocco del meccanismo perequativo paradossalmente non sembrano neppure rimediare gli ultimatum che, proprio sulla spesa previdenziale, in quelle settimane Commissione Europea e BCE continuavano pubblicamente a inviare all'Italia, anche come condizione per quegli interventi salva-debito che Francoforte avrebbe successivamente messo in campo per spegnere l'incendio degli spread. Di quale altra "certificazione di necessità" abbisognava quella riforma, per considerarsi costituzionalmente legittima?
A ciò si aggiunge la ancor più paradossale disparità tra questa pronuncia retroattiva – il conto presentato al governo è di circa 5 miliardi – e quella sulla Robin Tax, che venne dichiarata incostituzionale, ma non caricata per il passato sulle spalle del bilancio pubblico, proprio in virtù del fatto che "l'impatto macroeconomico delle restituzioni dei versamenti tributari connesse alla dichiarazione di illegittimità costituzionale" avrebbe determinato "uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva" e dunque avrebbe violato il nuovo articolo 81 della Costituzione.
Dal punto di vista concettuale, politico e (sia consentito dirlo) morale, rimane poi il nodo di fondo, che la Corte sembra bellamente eludere. In sistemi previdenziali mutualistici, come sono quelli a ripartizione, a maggior ragione nel caso di pensioni retributive, perché la mutualità dovrebbe solidaristicamente funzionare in senso unidirezionale, dai contribuenti ai pensionati, e mai viceversa? Perché la "vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività" comporta la declaratoria di illegittimità costituzionale sulle pensioni in corso di erogazione, ma il principio di affidamento in materia fiscale non è inteso in modo così rigido in altri casi, altrettanto se non più eclatanti (pensiamo ad esempio alle patrimoniali mobiliari e immobiliari previste proprio dal governo Monti)?
Più concretamente, la Corte non sembra minimamente considerare che le pensioni in essere sono in larghissima misura prodotto di scelte di politica di spesa che non hanno un contenuto propriamente "contrattuale". Nel caso di pensioni che incorporano tutte, quale più quale meno, un sussidio fiscale – proprio perché le pensioni retributive non hanno una relazione effettiva con la contribuzione del beneficiario – perché il legislatore non è autorizzato a disporne, come fa, ad esempio, nel caso di deduzioni o detrazioni fiscali, in modo diverso a seconda dei diversi esercizi finanziari? Perché, si potrebbe dire più semplicemente, un contribuente può scoprire di anno in anno quante tasse deve pagare, ma un pensionato non può scoprire quante ne deve incassare?
Oppure il diritto pensionistico è "più acquisito" degli altri e i pensionati sono soggetti più uguali degli altri contribuenti davanti alla Consulta?