In galera. Appunti sulle carceri italiane
Novembre/Dicembre 2016 / Diritto e libertà
La Costituzione italiana, all’articolo 27, cita esplicitamente la funzione rieducativa della pena. In concreto, tuttavia, il legislatore sembra voler sistematicamente disattendere questa disposizione, creando sempre nuovi reati a uso mediatico, senza considerare il loro effetto reale su un sistema penale e carcerario già poco incline (salvo eccezioni, come il carcere di Bollate qui descritto) a investire sui detenuti piuttosto che spendere per mantenerli.
Le implicazioni delle leggi penali proibizioniste e vendicative sono spesso devastanti per noi cittadini liberi che dovremmo beneficiarne. Più aumenta la cifra forcaiola della pena e si aggiungono aggravanti e sanzioni per farla pagare mediaticamente cara al criminale, più a pagarne le conseguenze è invece lo Stato. I costi di detenzione lievitano, l'efficienza della giustizia tracolla, la frustrazione degli agenti si fonde con quella dei detenuti. E ladri, spacciatori, narcotrafficanti escono di galera più “imparati” di prima, e con nessun’altra possibilità di riconoscersi in un perché civile se non riprendendo la vecchia via, l’unica praticata: delinquere.
Ogni nuova creazione penale si aggiunge alla ragnatela pre-esistente fino a creare una metastasi di effetti sanzionatori abnormi per i quali, in un attimo, un pusher di strada beccato in flagrante che prova a scappare, e scappando urta inintenzionalmente il poliziotto che lo insegue, si vede imputata l’aggravante di resistenza e aggressione, cioè mesi o anni in più a seconda dei precedenti. E se un ladro d’auto finisce in galera, espia la pena, esce e viene beccato di nuovo per lo stesso reato, quel secondo furto d’auto gli costerà un terzo di pena in più. È così che negli anni le galere si sono riempite senza potersi svuotare, e che per anni il legislatore-macho non ha perseguito l’obiettivo “meno crimini, meno reclusi” ma l’obiettivo opposto: “più case di reclusione”.
Gli avvocati accompagnano il reo fino al processo. Poi però, in carcere, sta al detenuto arrangiarsi, sopravvivere alla discrezionalità del giudice, non farsi seppellire dalla farraginosità della burocrazia penitenziaria - che è oscura, contorta, per nulla di ausilio alla finalità della pena: una vendetta punitiva ingiusta al punto da risultare riprovevole. E spesso nemmeno dopo la fine dell’espiazione l’espiazione per il pregiudicato finisce davvero. Subentrano le sanzioni accessorie - tipo il diniego della patente sino alla completa restituzione del debito processuale. Cose che possono rendere materialmente detentiva anche la libertà.
Con una delegazione dell’Associazione radicale milanese Enzo Tortora sono stata in visita alla casa di reclusione di Bollate e nella casa circondariale di San Vittore, per consentire anche ai detenuti di esercitare il proprio diritto politico di sottoscrivere la legge di iniziativa popolare per la legalizzazione della cannabis, proposta dall’Associazione Luca Coscioni (ALC) e da Radicali Italiani.
Il carcere criminogeno
San Vittore è una casa circondariale dove si transita in attesa di giudizio. È un edificio storico, in centro a Milano, uno splendore architettonico ormai fatiscente. Il calo della densità abitativa carceraria degli ultimissimi anni, in tardivo adempimento della sentenza Torreggiani che ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU), non ha reso gli ambienti meno malsani, li ha resi solo meno sovraffollati. Si parla da sempre di dismetterlo, venderlo ai privati, valorizzarlo e trasferire il carcere in una struttura nuova, adeguata, periferica. Però alla fine non lo si fa. San Vittore ha un valore aggiunto sistemico che altre carceri metropolitane non hanno: il rapporto con la città.
La popolazione è prevalentemente straniera, nullatenente e senza fissa dimora. Prima di essere arrestato - per furto, rapina, rissa, tentato omicidio - il delinquente scafato provvede a farsi un tiro di coca per risultare positivo al test del capello. Così può sperare di finire nel reparto considerato buono, quello dei tossici - condiviso da tossici veri, tossici tattici, tossici casuali - dove trascorrere almeno parte del tempo processuale in attività più edificanti, costruttive, civili rispetto al vegetare al costo medio per la collettività di 120 euro al giorno.
I tossici della Nave - il piano nobile del reparto - non sempre lo sono nell’accezione comune. Corridoio e celle sono aperti, lo status dei residenti non minaccioso. Si fanno attività formative e ricreative, c’è un presidio ambulatoriale fisso. La prassi terapeutica dei detenuti prevede psicofarmaci e tranquillanti anche solo per un’insonnia - di cui oltretutto si ignora come si potrebbe non soffrire, lì dentro - e metadone per non lasciare che il tossico crei tensione da astinenza. Non è una prassi sanitaria commendevole dispensare psicofarmaci come fossero acqua omeopatica, non lo è meno mantenere il drogato nello stato di dipendenza a spese della sanità pubblica. Eppure è la prassi.
Oltre “la nave”, a San Vittore ci sono i reparti intermedi - semi-aperti ma semi-morti - e i reparti chiusi - dove è morte-morte, estromissione totale dalla vita. I detenuti vengono destinati qui per ragioni di natura penale - una restrizione detentiva prescritta per via giudiziaria - oppure ambientale, essere schedato come infame dal codice d’onore penitenziario. Rientrano nella categoria ex poliziotti, trans, sex offenders. In questi reparti il corridoio è vuoto, le celle sbarrate, il silenzio totale: per gli spostamenti intra-penitenziari i detenuti vengono fatti uscire solo dopo aver chiuso tutti gli altri piani di tutti gli altri reparti con la porta di ferro che oscura le sbarre. I detenuti chiusi possono socializzare al massimo tra di loro, nell’ora d’aria.
Le donne sono più o meno il 10% della popolazione carceraria. Stanno in un reparto loro, in tuta-pigiama, alcune truccate altre no. Sono in buona parte straniere e giovani. Celle di due o tre letti, ambienti puliti e angosciosi. Ci sono zingare, assassine passionali, malate di mente, narcotrafficanti e segretarie conniventi di criminali vip. Le madri con figli minori di 3 anni vengono tradotte rapidamente da San Vittore in un istituto di custodia attenuata.
La prossimità tra il dentro e il fuori - tra la galera San Vittore e il centro storico elegante - aiuta ad impedire che, per chi è dentro, il fuori semplicemente non esista più; e, per chi è fuori, che la reclusione equivalga ad esclusione. Nelle metropoli avanzate - a Milano si comincia ora - il concetto di periferia come luogo anche simbolico dell’emarginazione non piace più, non funziona, trasferisce disagio anche negli habitat non disagiati: lo si vuole superare, non tanto perché includere è una cosa buonista, ma perché rendere civicamente maturo quel pezzo di co-cittadinanza che non lo è, alla fine, dà valore anche patrimoniale alla città.
Il carcere delle opportunità
Bollate è una casa di reclusione per detenuti con sentenza definitiva. È un carcere esemplare - l’unico in Italia che si è dato la missione di applicare il dettato costituzionale sul senso della pena. E non nasce dal caso: ha una storia, nomi e volti di dirigenti dell’amministrazione penitenziaria che hanno compiuto il miracolo di fare di una galera un laboratorio di opportunità.
A Bollate i detenuti vivono in un ambiente accogliente e umano, studiano, lavorano - circa 200 reclusi ogni giorno escono, si fanno la giornata di lavoro e tornano - e creano anche impresa. Bollate è un esempio rodato di come investire nei detenuti, invece che spendere per i detenuti, serva a restituire alla società dei cittadini, non ex criminali. Per i reclusi le regole sono severe, ma chiare. E non sono le stesse regole inerziali applicate altrove. Qui ad esempio, per i tossici, niente metadone. Quasi nessuno espia la pena restando a vegetare. Quasi tutti, dopo, sono in grado di lavorare. Se si sgarra si va altrove, punto.
Il ristorante stellato è l’ultimo dei capolavori socio-economici di Bollate. Si chiama ovviamente “In Galera”, è fisicamente ubicato dietro i cancelli di una brutta palazzina penitenziaria fuori mano dove risiedono assassini e gangster con un record di reati temibili, ma c’è la fila di milanesi à la page che riservano una cena lì. Ne ha parlato la stampa di tutto il mondo - New York Times incluso – e ha liste d’attesa di settimane, ci sono uno chef di fama e personale professionalizzato che dopo il lavoro rientra a dormire pochi corridoi più in là. Ah, si mangia e beve benissimo. Il ristorante è lo spin-off di ABC Catering, l’impresa sociale nata anni prima sempre a Bollate su iniziativa di un’associazione attiva nel recupero dei detenuti.
La lista delle iniziative economiche partorite nell’hub delle opportunità di Bollate è però ancora più lunga. La menziono, merita: Zerografica, società cooperativa tipografica gestita dentro e fuori da detenuti-imprenditori; Cascina Bollate, il vivaio che, oltre a vendere online e offline, organizza corsi aperti di giardinaggio e Bee4, l’impresa sociale dedicata ai servizi, ad esempio call center, i cui operatori sono appunto detenuti.
La galera dei liberi
Perché preoccuparsi delle carceri italiane? Perché i 1200 penitenti a Bollate e gli 800 in attesa di giudizio a San Vittore sono il frutto dell’operato di un Parlamento eletto a rappresentare anche noi. Se le leggi emanate non perseguono lo scopo, anzi ne zavorrano la possibilità di conseguimento, cambiare quelle leggi, pretendere che la giustizia venga pensata per dare senso al patto di convivenza civile - e non per mortificarlo - è un problema mio, di cittadina libera, non dei condannati privati dei diritti politici, che appunto non votano.
Il legislatore continua a restare indifferente agli effetti reali del proprio operato, sebbene quegli effetti siano manifestamente irrazionali e subdolamente criminogeni. Agisce sotto pressione mediatica, istituisce reati con l’obiettivo di arginare fenomeni criminali e invece li incentiva - è il caso dell’omissione di soccorso negli incidenti stradali, dopo l’introduzione del nuovo reato di omicidio stradale.
La galera è il nodo terminale dell’atlante caotico delle idiosincrasie tra ragione e legislazione. Un master nel nonsense cavilloso, discrezionale, burocratico che si compie in un regime di detenzione frutto di una stratificazione isterica di pene - contro tutto e di più - che ha generato follie punitive costose, irrazionali, centrifughe rispetto all’obiettivo teorico del legislatore.
Questo costringe i civili liberi a preoccuparsi delle galere.
INDICE Novembre/Dicembre 2016
Editoriale
Monografica
- La tecnologia cambia il mercato. L’impresa italiana alla prova del futuro
- La stampa 3D e la rivoluzione dei processi produttivi
- Tra estetica ed efficienza. Il design come fattore di innovazione
- L'innovazione è l'incontro tra 'sapere' e 'saper fare'
- La rivoluzione 4.0. L’impegno del Governo, le opportunità per l’Italia
- Ricomincio da quattro. La scommessa dell’industria 'intelligente'
- La fabbrica digitale come sfida sociale. Nuove tecnologie e nuova organizzazione
- Il lavoro 4.0. Il nuovo paradigma tecnologico e le dinamiche occupazionali
- Investire in competenze. Istruzione e ricerca per il Piano Industria 4.0
- Italia, non c’è industria senza ricerca
- Digitalizzazione e genetica, big data e personalizzazione. La medicina 4.0
Innovazione e mercato
- Sistema bancario e redditività: non è (solo) di Deutsche Bank che dobbiamo preoccuparci
- Cannabis e legalizzazione, l’ideologia contro i dati
Diritto e libertà
- In galera. Appunti sulle carceri italiane
- Riforma dell'ergastolo ostativo, una nuova occasione (quasi) persa