Quello liberale è prima di tutto un vuoto di creatività
Istituzioni ed economia
Partendo da un articolo di Benedetto Della Vedova, apriamo una riflessione a più voci sulla paradossale impoliticità della proposta politica liberale in Italia. Critiche, autocritiche, analisi e impegni di autori diversi, più o meno interessati e partecipi alle sorti della "causa".
C’è un vuoto liberale - è la constatazione di Benedetto Della Vedova. Questo vuoto non è di idee, sostiene, ma di “presenze organizzate”.
Non c’è in Italia alcuna organizzazione politica di chiara e coerente ispirazione liberale, è vero. C’è stata e in parte continua ad esserci una pluralità di forme associative che si contendono il certificato di liberalità, ma nessuno di questi “liberali militanti” ha in realtà mai generato alcun momentum politico. Eppure di occasioni, ed etichette, nel corso del tempo ce ne sono state. E hanno anche cominciato a nascere presto, quando si è capito che il Berlusconi todo liberale non era forse nemmeno mai esistito, che fosse dunque opportuno tenere viva quella pulsione ideale, e si è pensato di farlo con attività di inseminazione intellettuale. L’esperienza a tutti noi cara di Libertiamo nasceva appunto nel cuore del centro-destra pseudo-liberale di Berlusconi.
Dunque non è un problema nuovo, quello della organizzazione politica liberale, anche volendoci limitare alla Repubblica venuta dopo la Prima. La questione però non credo consista nel chiedersi come aggregare le tante idee ed energie liberali oggi condannate all’empireo dei pochi, spesso gufi, cultori della materia, ma perché quelle idee, anche quando hanno avuto l’opportunità di organizzarsi, non sono mai riuscite a produrre nulla di politico. Non consenso, non amministrazione, non sensibilità culturale diffusa.
I liberali si parlano molto tra loro, si rassicurano, si confermano nella correttezza della propria visione, facendo attenzione a non apparire mai mainstream - anzi. Liberali di grande qualità ed efficacia divulgativa scrivono sulle principali testate cartacee e digitali. I loro interventi sono brillanti, per esposizione ed argomentazione. Vengono letti e condivisi, lo si ricava dalla popolarità e dalla qualità delle conversazioni che generano sui social. Ma i tanti buoni argomenti pro ogm e globalizzazione, pro trivelle sui nostri litorali turistici, e quelli ancora più solidi sulla necessità di tenere i settantenni a lavoro per ragioni di sostenibilità fiscale, difficilmente possono farsi “forza politica”. E questo non credo sia dovuto solo a questioni di abitudine al “populismo”, o al fatto che ci siano scelte controverse ma necessarie che impongono responsabilità, e solo i liberali ne hanno disponibilità. Credo in realtà sia una questione di debolezza logica intrinseca all’approccio non politico dei liberali.
Gli argomenti liberali poggiano su assunti fondati su dati, evidenze, e tuttavia questi argomenti non sono razionalmente blindati: non sono cioè gli unici possibili argomenti razionali ad un dato tema. Alle tesi razionali sulla opportunità economica, produttiva, sociale delle trivellazioni, ad esempio, se ne oppongono di altrettanto razionali contro la effettiva opportunità a lungo termine dell’impresa. Il liberale politico dovrebbe assumere anche questi, non escluderli, dalla propria ponderazione razionale. Esattamente quello che ha fatto l’istituto Bruno Leoni sul tema “Tav”.
Io vedo due limiti politici all’attitudine liberale: elitarismo e scarsa creatività. C’è un piacere istintivo nel produrre tesi contro-intuitive, nel confutare le banalità che si affermano come verità - il caso Oxfam, per dire. Questo è un bene per la competizione delle idee, ma è indifferente al fatto che ciascuno di noi legge la realtà in base al modo in cui la esperisce, non in base ai dati aggregati su scala globale. Il trentacinquenne italiano a 1100 euro al mese e 700 di affitto potrebbe non cogliere l’esatta percentuale di beneficio da lui direttamente ricavato dal fenomeno di generale arricchimento globale, oppure la coglie e capisce che quel beneficio per lui è negativo sebbene a vantaggio di un gruppo di omologhi cinesi emerso dallo povertà.
E c’è anche scarsa creatività nel liberale, sia nella proposta sia nell’approccio ai temi: il liberale è prevedibile. Sai già come la pensa su un tema controverso, e sai già quale soluzione egli proponga: la meno intuitiva. Non ha una elaborazione evolutiva delle proprie tesi, a dispetto del fatto che siano già state assunte retoricamente da altri o che, peggio, siano state abusate nella pratica politica al punto da svuotarle completamente del senso che invece i liberali continuano a dare loro.
La politica per fortuna non è mono-dimensionale. Un approccio politico liberale dovrebbe porsi con maggiore curiosità verso quel pezzo di realtà che sta fuori dai consessi di economisti, farne fonte informativa, strumento di verifica sul campo, laboratorio creativo per la proposta di soluzioni. Un liberale a mio avviso diventa politico nel momento in cui si chiede se, oltre a sostenere i conti del sistema previdenziale, tenere un settantenne a fare il lavoro che faceva vent’anni prima contribuisca a rafforzare la produttività del sistema o se invece no. E se quella mancata produttività influisca positivamente sulla crescita del Pil, la tenuta inter-generazionale, la equità, oppure no. E se non sia piuttosto un altro, l’obiettivo: mantenere il settantenne attivo, non tenerlo incollato ad uno stesso posto di lavoro in cui inevitabilmente finirà con il costituire più un peso - per sé e l’azienda - che un vantaggio. Dunque porsi, creativamente, alla prova delle soluzioni.
Il liberale ha dalla sua la più coinvolgente delle aspirazioni: la libertà, appunto. Il suo obiettivo deve essere quello di trovare formulazioni sistemiche intelligenti, funzionali, sostenibili perché la libertà dei singoli sia sempre favorita e perseguita, e sia però una libertà effettiva: non teorica né retorica. Se la si vede in questo modo si ricaverà come non sempre la soluzione più coerente sia effettivamente la soluzione liberale che viene tuttavia ancora proposta di default.