Il nuovo Senato avrà meno poteri reali, ma sarà comunque rumoroso: dipenderà da maggioranze variabili e potrà influenzare l’opinione pubblica in materie molto delicate. Quando l’apparenza può contare più della sostanza.

DiGregorio senatori

Il dibattito pubblico sul referendum costituzionale impazza già da tempo. Per l’esattezza da quando Matteo Renzi annunciò che, in caso di vittoria del No, si sarebbe ritirato dalla politica. Una mossa che ha iperpersonalizzato l’evento, spingendolo oltre la 'normale' personalizzazione alla quale siamo ormai abituati in ogni avvenimento politico. Anche il referendum sulle 'trivelle' è diventato ben presto un plebiscito pro o contro Renzi.

L’iperpersonalizzazione, ovviamente, sposta il focus della discussione dai contenuti specifici – di per sé tecnici, poco “mediatici” e “pop” – e fa sì che l’opinione pubblica continui a valutare e a prendere posizione sulle modifiche alla Costituzione prevalentemente in base alla simpatia-antipatia verso il premier e verso il suo governo. Intendiamoci, il “caso trivelle” lo insegna: questo fenomeno è inevitabile. Renzi lo sa e proprio per questo ha deciso di giocarsi la carta a modo suo, alzando la posta. Vero è che, sondaggi alla mano, oggi i NO sembrerebbero vincenti e di conseguenza la posta pare essere stata ridimensionata: è sparito il “ritiro dalla politica” mentre restano in sella le dimissioni del governo.

In questo scenario mediatico-politico (non per caso utilizzo prima il termine “mediatico”), in pochi si preoccupano di analizzare le conseguenze sistemiche della riforma costituzionale. E, se lo fanno, l’eco delle loro analisi resta confinata a nicchie di esperti e addetti ai lavori. Nei rari casi in cui riescono a far breccia nelle comunicazioni di massa, immediatamente le valutazioni tecniche finiscono nel frullatore delle emozioni e delle personalizzazioni, per cui la prassi è che si parte da una disamina su “come sarà il Senato” e si finisce ben presto a discutere di Renzi o dei “gufi”.

In barba a questa situazione – peraltro normale nella società dell’immagine – cerchiamo di stare sul pezzo e proviamo a chiederci come lavorerà il nuovo Senato e quali ripercussioni avrà sulla politica italiana, qualora ovviamente vincesse il Sì.

La prima cosa da osservare è che in ogni caso ci sarà da attendere la legge ordinaria che disciplinerà l’elezione/selezione dei senatori nei consigli regionali. La riforma parla di elezione da parte dei consigli “in conformità alle scelte espresse dagli elettori”. Questo principio pone alcuni paletti, ma lascia ancora troppa discrezionalità sulle modalità. Dunque occorre attendere la legge per valutare quale sarà la scelta finale.

In ogni caso, l’aspetto a mio avviso più interessante e poco sottolineato finora è quello della composizione variabile della camera alta. I 74 consiglieri-senatori e i 21 sindaci-senatori, infatti, saranno componenti del Parlamento per il tempo legato alla loro carica negli enti locali. Il che significa che ci saranno continue mutazioni nella composizione del Senato e, di conseguenza, anche che saranno possibili diversi cambi di maggioranza a fronte di una presumibile (e verosimile) maggioranza stabile e duratura alla Camera, ad Italicum vigente.

Si dirà: ma tanto il Senato non vota la fiducia e si occupa solo di alcune materie, per cui non ha modo di mettere in discussione l’efficacia e l’efficienza del lavoro della maggioranza alla Camera. Questo è ovviamente vero, tuttavia dobbiamo sempre fare i conti col “trade-off” tra realtà empirica e realtà percepita. I cittadini non riescono a sapere o a capire, autonomamente, come sta lavorando un governo: tutto passa dalla comunicazione e dal sistema dell’informazione. E in questa realtà mediaticamente determinata, avere un Senato a maggioranza diversa dalla Camera può senz’altro creare non pochi problemi al governo di turno.

Basti pensare al prossimo taglio (inevitabile, come da 8 anni a questa parte) agli enti locali, che questa volta avranno un’intera Camera a disposizione per manifestare pubblicamente la loro avversione e le loro contestazioni. In ogni caso, la “visibilità” mediatica dei Senatori in quanto tali è garantita, e dunque la possibilità di “fare opposizione” efficacemente sui media non va sottovalutata. Anche perché, se è vero che il nuovo Senato mantiene la potestà legislativa solo su alcune materie, è altrettanto vero che può chiedere modifiche alle leggi approvate alla Camera in qualunque settore, il che significa che la possibilità di intervenire nel dibattito pubblico è garantita al 100%. E tanto basta, per fare “rumore” e orientare l’opinione pubblica.

Dunque, a fronte di un’indiscutibile semplificazione e rafforzamento dei poteri (reali) della Camera rispetto al Senato, sarà possibile riscontrare un controbilanciamento dei poteri percepiti, specie in caso di maggioranze divise, ovviamente. E il nuovo Senato ha molte più chance di avere maggioranze divise rispetto a quello pre-riforma, dato che dipende da 21 elezioni regionali (19 più le province di Trento e Bolzano) e da 21 elezioni comunali, spesso disallineate nel tempo e dunque condizionate da “climi di opinione” e ondate emotive mutevoli.

Da questo punto di vista, dunque, potrebbe verificarsi un vero e proprio paradosso. Un Senato meno forte in termini di poteri e funzioni reali, ma più visibile e rumoroso in termini di potere percepito, quello cioè di orientare l’emozione pubblica. Forse l’unico potere che conta nella società della comunicazione.