Non c’è solo il populismo. L’esclusione, la sfiducia nello status quo e la sensazione di essere demograficamente sotto assedio possono essere canalizzate verso una visione di futuro positiva, coraggiosa e riformatrice. Ma bisogna battere l'ostilità preconcetta, e apparentemente invincibile, di chi continua a sostenere che in Italia siamo troppi e non c'è posto per altri.

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Per la prima volta, nell’anno 2015, le nascite in Italia sono scese sotto la soglia psicologica dei 500.000 bambini, di cui appena 400.000 da genitori italiani. Il nostro tasso di fecondità è uno dei più bassi al mondo, 1,37 bambini per donna. L’unico dato "positivo" è dato dal fatto che, grazie all'apporto degli immigrati, siamo ancora sopra al pauroso livello minimo di 1,19 raggiunto nel 1995.

Una combinazione di fattori - le emigrazioni, il rallentamento dell'immigrazione dovuto alla crisi economica e l’aumento delle morti, normale in una popolazione sempre più anziana - ha fatto sì che, per la prima volta dal 1919, la popolazione italiana sia diminuita rispetto all'anno precedente. Accadde con gli effetti terribili della Grande Guerra, accade di nuovo oggi, tanto che il giornale francese Les Echos titolava: “Les Italiens, un peuple en voie d’extinction. C’è del voluto sensazionalismo in un titolo del genere, non ci stiamo davvero estinguendo, ma certamente stiamo correndo il rischio di un impoverimento: di talento, di creatività, di futuro, perché una popolazione sempre più anziana perde la sua vitalità e attrattività.

È questo un fenomeno reversibile? Lo è, se rinunciamo all’illusione che essere italiani (o europei o occidentali) sia un fatto di razza o di pelle. Abbiamo fortemente bisogno di immigrati, di giovani, di sangue e sudore, di voglia di crescere e di affermarsi. La demografia mondiale è la variabile più importante di cui tener conto, come proviamo a spiegare nella monografia gennaio-febbraio di Strade. Abbiamo bisogno di chi voglia condividere con noi il profumo della nostra cucina e la bellezza della nostra lingua, la furbizia e il sarcasmo, la dolcezza e l’amarezza della nostra Penisola.

Occorrono scelte pubbliche con lo sguardo lungo, non condizionate dal breve periodo o dall’egoismo dell’oggi rispetto al domani. Vale per l’immigrazione come per le politiche di welfare, che possono e debbono essere messe al servizio della natalità e dell’infanzia. Non ci estingueremo, se torneremo ad amare di più l’Italia e l’essere italiani, se insomma vorremo che dopo di noi l’Italia sia ancora un luogo straordinariamente importante per la storia dell’uomo, come è stato finora. Ma dobbiamo volerlo.

In una società sempre più anziana, ci insegnano gli scienziati politici, l’elettore mediano diventa sempre più adulto. Cambiano così gli interessi e le preferenze e si riduce l’orizzonte temporale a cui ognuno sottopone le proprie aspirazioni politiche. Con le dovute eccezioni, un 70enne sarà meno sensibile di un 20enne al bisogno che la metropolitana di Roma o Milano restino aperte 24 ore al giorno, e questo può forse anche spiegare la difficoltà con cui l’Italia si apre ai nuovi diritti civili e individuali o quanto sia poco rappresentata nella politica e nei sindacati l’enorme platea dei lavoratori free-lance, delle partite IVA con regime dei minimi.

C’è chi propone di abbassare il diritto di voto ai 16enni, per ridurre l’invecchiamento dell’elettore mediano, o chi in modo più fantasioso immagina il diritto per i genitori di esprimere il voto anche per i propri figli minori. Forse sarebbero palliativi o forse no, ma sono provocazioni utili per riflettere sul tema cruciale delle fratture generazionali del nostro Paese e su quello – strettamente collegato – della rappresentanza degli interessi degli outsider, degli esclusi, di quanti sono fuori dalle consolidate e spesso asfittiche reti relazionali, corporative e politiche italiane. Quanta parte del voto al M5S in Italia deriva proprio da questa sete di rappresentanza? Una domanda legittima “catturata” da risposte sbagliate, anzi dannose, a cui andrebbero contrapposte soluzioni e politiche nuove.

La competizione “nuovo vs nuovo” che abbiamo visto all’opera in Spagna tra Podemos e Ciudadanos ci insegna che la domanda di rappresentanza degli outsider e degli esclusi non è monopolio dei movimenti populistici. Quel che Albert Rivera e il suo partito (e prima di loro il Matteo Renzi delle primarie per la premiership del 2012) ci hanno insegnato è che l’esclusione, la sfiducia nello status quo e la sensazione di essere “demograficamente sotto assedio” possono essere canalizzate verso una visione di futuro positiva, coraggiosa e riformatrice. Quel che ora va dimostrato è che tale visione può vincere anche la sfida più complicata, quella del governo. Ma per vincerla occorre in primo luogo battere l'ostilità preconcetta, e apparentemente invincibile, di chi continua a sostenere che "in Italia siamo troppi" e "non c'è posto per altri".

Tutto si tiene. La crisi demografica implica un sovrappiù di fantasia riformista. L'impegno per le riforme implica, in primo luogo, un'opera di verità persuasiva sulla situazione demografica italiana e europea, che vanifica ogni illusione di "sovrana" autosufficienza demografica.