A proposito dei dati sul lavoro, è necessaria un po’ di chiarezza: come mai le opposizioni lamentano la riduzione degli occupati mentre il governo proclama di aver diminuito i disoccupati? Il centro della questione sta negli inattivi, che non sono conteggiati nella forza lavoro: tenendo conto anche di loro, il tasso di occupazione italiano risulta tra i più bassi d’Europa e del mondo sviluppato. Non esattamente un’ottima notizia.

Capone negativo sito

Quando l’Istat - l'Istituto nazionale di statistica – ha pubblicato i dati provvisori di settembre sull’occupazione, le reazioni sono state molto diverse e contraddittorie: da un lato le forze politiche di opposizione hanno evidenziato il calo del numero degli occupati dello 0,2% (-36 mila) per criticare le scelte del governo, dall’altro le forze di maggioranza hanno sottolineato la riduzione dei disoccupati dell'1,1% (-35 mila) per esaltare l’efficacia della politica economica dell’esecutivo.

In mezzo a tutto ciò, molte persone si domandano: com’è possibile che siano diminuiti sia gli occupati che i disoccupati? Ci sarà stata una pandemia che ha sterminato decine di migliaia di italiani? O forse un’emigrazione di massa? Per fortuna no. C’è un altro dato che spesso non viene considerato, ma che è altrettanto importante, ed è il numero degli inattivi: nell’ultimo mese sono aumentati dello 0,4% (+53 mila). Rispetto al mese precedente secondo l’Istat sono quindi diminuiti occupati e disoccupati, mentre sono aumentati gli inattivi.

A questo punto è forse utile fare un passo indietro per capire qual è la definizione di queste categorie e in particolare cosa distingue gli inattivi dai disoccupati, visto che la differenza con gli occupati è abbastanza intuitiva. Secondo l’Istat gli occupati sono le persone oltre i 15 anni di età che lavorano. I disoccupati sono le persone oltre i 15 anni non occupate e alla ricerca attiva di un lavoro (insieme, occupati e disoccupati, formano le “forze di lavoro” che in rapporto alla popolazione di riferimento segnalano il tasso di attività). Gli inattivi invece comprendono chi tra i 15 e i 64 anni non fa parte delle forze di lavoro, cioè le persone non occupate né in cerca di occupazione, e il rapporto tra gli inattivi e la popolazione di riferimento segnala il tasso di inattività.

La somma del tasso di attività con quello di inattività è pari al 100%: sembra una cosa banale, ma non lo è, perché, ad esempio, sommare il tasso di occupazione e il tasso di disoccupazione non funziona allo stesso modo. I due tassi, infatti, non si riferiscono alla stessa popolazione: il tasso di occupazione è il rapporto tra gli occupati e la popolazione nella fascia d’età 15-64anni, mentre il tasso di disoccupazione è il rapporto tra i disoccupati e le forze di lavoro (cioè occupati più disoccupati).

Dopo questo excursus, i dati di settembre rispetto ad agosto non sembrano positivi, perché oltre alla diminuzione degli occupati indicano che il dato apparentemente positivo della riduzione dei disoccupati è dovuto all’aumento degli inattivi: in pratica non ci sono meno disoccupati perché hanno trovato lavoro, ma perché hanno smesso di cercarlo.

Può essere però fuorviante misurare la variazione di occupati, disoccupati e inattivi rispetto al mese precedente (quella che l’Istat chiama variazione congiunturale) perché ci possono essere in campo dei fattori che l’amplificano. Ad esempio la fine della stagione estiva può portare a un calo naturale degli occupati (come l’inizio porta un aumento). Per questo motivo è più corretto, o quantomeno più indicativo, guardare alla variazione tendenziale, ovvero a quanto il dato è cambiato rispetto allo stesso mese dell’anno precedente.

Visti così, i dati sono molto meglio: rispetto all’anno scorso gli occupati aumentano dello 0,9% (+192 mila persone occupate) e il tasso di occupazione dello 0,6%, la disoccupazione diminuisce dell'8,1% (-264 mila persone in cerca di lavoro) e il tasso di disoccupazione dell’1%, gli inattivi calano dello 0,3% con un tasso di inattività invariato. Come direbbero dalle parti del governo, è la svolta buona, finalmente si vede l’Italia col segno più, ecco i risultati delle riforme.

Forse non è il caso, però, di abbandonarsi a eccessivi entusiasmi. Basta fare un confronto con il periodo pre-crisi o con gli altri paesi europei per rendersi conto del reale valore dei segnali positivi che vengono dal mondo del lavoro. Il dato più rilevante da considerare è l’occupazione, o meglio il tasso di occupazione, che è probabilmente il “meno bugiardo”.

Il tasso di disoccupazione può trarre in inganno: se confrontiamo il dato italiano attorno al 12% con quello spagnolo attorno al 24% possiamo essere istintivamente portati a pensare che in Spagna siano senza lavoro il doppio delle persone, ma, come abbiamo visto, la percentuale dei disoccupati è riferita alla forza lavoro e non alla popolazione in generale, non tiene cioè conto degli inattivi, di coloro che il lavoro non lo cercano neppure per scelta o perché scoraggiati.

E infatti in Italia il tasso di occupazione, ovvero il numero di persone che lavorano rispetto alla popolazione totale, è più basso che in Spagna. Può sembrare un gioco di parole, ma più che l’alta disoccupazione è la bassa occupazione il problema della nostra economia.

Come hanno evidenziato Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi del centro studi Adapt, “il calo degli occupati (di settembre, ndr) inchioda l’Italia a un tasso di occupazione del 56,5%, ormai inferiore di 3 punti a quello spagnolo. Il numero di persone che lavorano nel nostro Paese resta il problema principale, sia sociale che di sostenibilità del sistema economico e di welfare”.

Il tasso di occupazione italiano è uno dei peggiori del mondo sviluppato, circa 10 punti più basso della media europea, superiore solo alla disastrata Grecia. Il dato è impressionante soprattutto se si guarda il numero assoluto degli occupati, circa 22,5 milioni: vuol dire che, su una popolazione di circa 60 milioni di abitanti, solo una persona su tre lavora, e ha sulle spalle il sostentamento delle altre due. È quindi importante che nell’ultimo anno gli occupati siano aumentati di 192mila unità e che il tasso di occupazione sia salito dello 0,9%, ma siamo indietro, rispetto ai livelli pre-crisi - che erano già più bassi di quelli degli altri paesi - di circa 500mila posti di lavoro e 2 punti percentuali.

Per far alzare il numero degli occupati il governo ha investito ingenti risorse politiche ed economiche, con il Jobs Act e la decontribuzione per gli assunti a tempo indeterminato, ma i risultati non sembrano rispecchiare l’entità dello sforzo.

Come ha evidenziato Luca Ricolfi, dopo nove mesi dall’introduzione della decontribuzione “il bilancio è magro, innanzitutto, in termini di costi e benefici. Perché i costi sono stati altissimi (circa 12 miliardi, spalmati in 3 anni, per i soli assunti nel 2015), ma i benefici occupazionali sono stati minimi”, visto che l’occupazione è cresciuta di appena 185 mila unità. Il professor Ricolfi fa notare che l’incremento degli occupati nei primi nove mesi del 2015 è stato pressoché identico allo stesso periodo del 2014, quando però eravamo in recessione e non c’erano i generosi incentivi all’assunzione introdotti quest’anno. Il che vuol dire che, senza i 12 miliardi di decontribuzione, nonostante un quadro economico europeo e internazionale più favorevole, la crescita occupazionale sarebbe stata più lenta dell’anno scorso, quando l’Italia andava col segno meno.

La cosa è preoccupante, perché, se si assume che le risorse spese per la decontribuzione abbiano avuto un effetto, a partire dall’anno prossimo ci potrebbe essere un arresto nella crescita dei posti di lavoro, visto che il governo ha deciso di tagliare la decontribuzione sui nuovi assunti dal 100% per tre anni al 40% per due anni, preferendo impiegare le risorse per ridurre le tasse sulla casa.

La situazione non è catastrofica, come tendono a dipingerla dalle parti dell'opposizione, ma ha anche poco a che fare con il trionfalismo del governo. L’Italia dopo diversi anni ha finalmente “il segno più”, ma subito dopo c’è lo zero virgola, e di questo passo ci vorranno decenni per colmare il gap con il resto d’Europa. Sempre che nel frattempo non ci siano scossoni nell’economia globale.