La questione curda dopo le elezioni turche
Il popolo curdo non ha mai avuto vita facile in Turchia. Dopo le elezioni di giugno sembrava che l’HDP potesse diventare l’ago della bilancia in Parlamento, ma le nuove elezioni convocate per novembre e vinte dall’AKP di Erdogan, approfittando della divisione dei curdi tra l’HDP e il “combattente” PKK, hanno di nuovo cambiato lo scenario e alzato il livello dello scontro. Cosa succederà adesso?
“Ci aspettiamo di raggiungere il 15 per cento e cento deputati”, diceva il giorno prima dell’apertura delle urne Ömer Önen, co-presidente dell’HDP di Diyarbakir, la città turca che i curdi considerano la loro capitale. “Dopo le elezioni, se l’AKP metterà da parte Erdogan e deciderà di intraprendere la strada del cessate il fuoco e della riforma costituzionale, potremo anche decidere di appoggiare il governo”. Il tono era quello del vincitore che detta le condizioni agli sconfitti.
Il giorno dopo a Silvan, una città di quarantamila abitanti a un’ora da Diyarbakir, le elezioni si sono svolte in un clima di fiducia e ottimismo. Dopo i combattimenti dell’inizio di ottobre l’esercito si era ritirato nelle caserme, lasciando ai miliziani curdi il controllo di quasi metà della città. A poche centinaia di metri dai seggi si potevano ancora vedere le barricate con cui i giovani combattenti delle “unità di autodifesa” avevano sbarrato la strada ai veicoli dell’esercito.
Alle 15 del primo novembre, un’ora prima della chiusura dei seggi, a Silvan e nei villaggi dei dintorni avevano già votato quasi tutti. “Mancano sette persone degli aventi diritto”, diceva un presidente del seggio a Demirkuyu, poche decine di case lungo la strada che porta a una nuova diga in costruzione più a monte. “Sarebbero nove, ma due li abbiamo già chiamati e verranno a votare più tardi”. Nei paesini arroccati alle pendici delle montagne - gli unici amici dei curdi, come dice un vecchio proverbio locale - tutti si conoscono e tutti hanno chiaro quale sia il partito che bisogna votare.
All’inizio dello spoglio il clima era divenuto di vera e propria eccitazione. Alla sede dell’HDP di Silvan, mentre il tramonto comincia a calare sulla città, arriva un foglio azzurro con il resoconto dei voti di una sezione cittadina: 139 votanti, 138 preferenze per l’HDP, una scheda bianca. Fuori, in mezzo ai sostenitori e a un gruppo di anziani seduti in uno spiazzo di cemento davanti a una sala da tè, una deputata locale parla al telefono con voce concitata e comunica i risultati alla sede centrale, a Diyarbakir.
Nel capoluogo, le strade si riempiono di caroselli di automobili già verso le 17, quando vengono diffusi i dati preliminari, mentre nei quartieri periferici si spara qualche colpo in aria per festeggiare. Sembra una grande vittoria: l’HDP è vicino al 15 per cento e i nazionalisti turchi dell’MHP, che molti curdi chiamano semplicemente “i fascisti”, sono a un passo dallo scendere sotto la soglia del 10 per cento.
Ma nell’arco di poche ore, il sollievo lascia spazio a uno strano silenzio. I nuovi risultati iniziano a mostrare una flessione dell’HDP, mentre l’AKP del presidente Erdogan continua a restare intorno al 50 per cento. Il partito curdo scende prima a tredici punti percentuali, poi dodici, undici. Al termine dello spoglio, l’HDP è per un soffio sopra la soglia di sbarramento insieme ai nazionalisti del MHP. L’AKP ha il 49 per cento dei voti, abbastanza per formare un nuovo governo autonomo. Una quarantina di giovani curdi si scontra con la polizia davanti alla sede dell’HDP, che li disperde con cannoni ad acqua e lacrimogeni. Poi, in città scende il silenzio.
Per i curdi le elezioni sono state una sorpresa, ancora prima che una delusione. Quasi tutti si aspettavano una replica delle elezioni di giugno, quando Erdogan non era riuscito a ottenere una maggioranza autonoma e tutti i sondaggi indicavano che l’AKP sarebbe stato costretto ad allearsi con il partito di centrosinistra e nazionalista del CHP per formare un governo. Nello scenario migliore, l’HDP avrebbe fornito un appoggio esterno e la coalizione avrebbe riaperto il dialogo di pace con i curdi, mettendo fine agli scontri di quest’estate. Alcuni arrivavano a ipotizzare che Erdogan sarebbe stato messo da parte dal suo stesso partito e che la sua scommessa di convocare nuove elezioni a meno di sei mesi di distanza gli si sarebbe ritorta contro.
Altri ipotizzavano uno scenario più fosco. L’AKP avrebbe utilizzato il suo vasto controllo della macchina statale per alterare il risultato elettorale tanto da tenere l’HDP al di sotto della soglia di sbarramento, la più alta del mondo. Se le elezioni avessero dimostrato che la causa curda non poteva essere portata avanti con i mezzi democratici, diversi analisti temevano che il PKK avrebbe scatenato un’insurrezione generale con il paese di nuovo sprofondato in una guerra civile come quella iniziata negli anni Ottanta, durata trent’anni e costata 30 mila morti.
“Ci aspettiamo un attacco da un momento all’altro”, dice Rohat (un nome di fantasia) che ha 26 anni e fa parte delle ‘unità di autodifesa’ di Cizre, una città a maggioranza curda a tre ore di auto da Diyarbakir dove nei mesi scorsi ci sono stati gli scontri più duri tra miliziani ed esercito turco. È il giorno dopo le elezioni e anche qui regna una strana quiete. Metà della città è ancora in mano alle unità di autodifesa e interi quartieri sono bloccati dalle barricate.
Per le strade si sentono di tanto in tanto colpi d’arma da fuoco e Rohat spiega che spesso la polizia spara contro i sacchi di sabbia per tenere i curdi sul chi vive. Nonostante il ragazzo sia di guardia a meno di mezzo chilometro da una caserma, nel pieno centro della città e vicino alla strada principale, lui e un compagno sono gli unici due miliziani in vista. Le strade sono affollate di bambini e ragazzi, che giocano a pallone o lungo le rive di un canale di scolo che scorre in mezzo alle case.
I risultati del primo novembre hanno smentito tutte le previsioni: Erdogan ha ottenuto una vittoria netta, raggiungendo la maggioranza assoluta dei seggi con il 49 per cento dei voti, ma allo stesso tempo i curdi hanno evitato una disastrosa sconfitta e sono riusciti a rimanere sopra la soglia di sbarramento.
Alla fine, l’azzardo di Erdogan ha pagato: alzando il livello di scontro con il PKK è riuscito a spaventare i curdi più moderati e l’HDP ha perso un milione di voti rispetto a giugno. Nel clima di caos e violenza, ad Ankara, più di cento manifestanti e attivisti sono morti il 10 ottobre in un attacco suicida che ha portato l’HDP alla decisione di sospendere tutti i comizi. Tra combattimenti e attentati, Erdogan ha presentato la vittoria con maggioranza assoluta dell’AKP come l’unico modo per evitare il caos. È riuscito così a prosciugare anche i voti degli ultranazionalisti dell’MHP, che il giorno dopo le elezioni si sono ritrovati con metà dei deputati.
Ma la tattica politica sembra lontana, nelle remote regioni orientali. Per il primo giorno dopo le elezioni tutto il Kurdistan è rimasto tranquillo, con i militari nelle loro caserme e i miliziani curdi sulle loro barricate.
Poi, alle cinque del martedì mattina, l’esercito ha dichiarato a sorpresa il coprifuoco a Silvan, dove tre giorni prima i curdi erano andati in massa alle urne. La città è stata completamente isolata e a quasi tutti i giornalisti è stato impedito l’ingresso. In un discorso pronunciato il mercoledì, Erdogan ha annunciato che l’esercito non darà tregua a chi impugna le armi: “Continueremo le operazioni militari finché non schiacceremo le basi cittadine dei terroristi”, ha detto con la sua solita retorica muscolare. Il giorno dopo il PKK ha revocato il cessate il fuoco unilaterale proclamato prima delle elezioni.
Da allora a Silvan si continua a combattere. Allan Kaval, un giornalista di Le Monde tra i pochi a essere riuscito a entrare in città, ha raccontato che ora le barricate sono diventate la linea del fronte e che in città non si sentono altro che i colpi di mortaio, il fuoco di armi leggere e il ronzio dei droni di sorveglianza.
Nel frattempo, a Cizre, a Diyarbakir e in tutto il Kurdistan la situazione rimane tesa, ma per le strade non è ancora guerra aperta. Selahattin Demirtaş, il leader dell’HDP, ha chiesto di ricominciare il dialogo di pace lo stesso giorno in cui il PKK ha ripreso a combattere: “Vogliamo un clima in cui tutte le armi siano messe a tacere”. La guerra civile non è ancora ricominciata, ma la pace sembra ancora lontana.
INDICE Novembre/Dicembre 2015
Editoriale
Monografica
- Lavoro: quel che si è fatto e quel che resta da fare. Intervista a Pietro Ichino
- Lavoro, segno più o segno meno?
- Jobs Act: un piccolo passo verso la competitività
- La contrattazione decentrata: più lavoro e più efficienza
- Salari uguali per tutti? Meno occupazione, più lavoro nero e grigio nel Mezzogiorno
- La via previdenziale all’occupazione: l’illusione della staffetta generazionale
- Più produttività, più garanzie: lo scambio virtuoso tra flessibilità e welfare aziendale
- Reddito di cittadinanza o reddito minimo? Questione di welfare
Istituzioni ed economia
Innovazione e mercato
- Il Paese dell'urbanistica malata
- Cosa cambierà con Netflix e cosa è già cambiato
- La chance del mercato globale per l’impresa italiana: intervista a Francesco Ortolani