Uno dei molti problemi del mercato del lavoro italiano è la contrattazione collettiva che non funziona, con rinnovi sempre in ritardo e rigidità ormai obsolete di fronte a una situazione economica in costante mutamento. Come risolverlo? Le esperienze positive di altri Paesi suggeriscono di dare più spazio alla contrattazione a livello aziendale piuttosto che regionale o settoriale.

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Sono tuttora in stallo le negoziazioni fra Confindustria e sindacati per trovare un accordo che riscriva alla radice il sistema di contrattazione collettiva. Secondo i dati Istat, ad agosto dell’anno in corso il 38% dei lavoratori italiani era in attesa di rinnovo contrattuale. A gennaio la percentuale era addirittura il 60%. I dipendenti in attesa di rinnovo lo sono in media da 56 mesi: 14 mesi per i lavoratori dell’industria, 41 per quelli dei servizi, 68 per i dipendenti pubblici.

Il sistema è al collasso da anni, vivendo su vacanze contrattuali e mancanza di accordi per periodi incredibilmente lunghi. Le imprese e i lavoratori si trovano perciò a operare con salari che non riflettono per nulla le condizioni economiche prevalenti del momento. Ci sarebbe da domandarsi, a questo punto, che senso abbia la contrattazione collettiva in sé, dati i magri risultati, soprattutto se paragonati a quelli dei nostri partner europei.

Nell'Europa continentale, in genere, i salari sono contrattati collettivamente, e la maggioranza dei lavoratori è coperta da accordi collettivi attraverso un'estensione amministrativa. La tabella 1 cerca di riepilogare le principali caratteristiche dei sistemi di contrattazione collettiva, prima dello scoppio della grave crisi globale.

La ratio sottostante alle legislazioni nazionali sulla contrattazione collettiva nasce dall’asimmetria tra singoli lavoratori e datori di lavoro, sia per quanto riguarda l'accesso alle informazioni, sia per quanto riguarda il potere negoziale. Le legislazioni del lavoro offrono condizioni quadro affinché la contrattazione collettiva possa, così, riequilibrare il potere contrattuale tra datori di lavoro e lavoratori. Ceteris paribus, rispetto a una situazione in cui prevalgono solo contratti individuali, più il sistema collettivo di contrattazione è ben regolato e sviluppato, maggiore si pensa che sia il potere contrattuale dei lavoratori.

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Da un punto di vista teorico, il livello al quale la contrattazione collettiva avviene può produrre risultati sostanzialmente differenti.

In generale, la contrattazione centralizzata o coordinata permette alle imprese e ai datori di lavoro di internalizzare le esternalità associate ad aumenti salariali e fornisce risultati aggregati migliori in termini di occupazione, inflazione e innovazione da parte delle imprese già presenti sul mercato.

Al contrario, la flessibilità relativa associata a un livello di contrattazione aziendale stimola l'innovazione principalmente da parte dei nuovi entranti sul mercato e permette un migliore allineamento fra crescita salariale e crescita della produttività a livello d’impresa, consentendo in tal modo di salvare posti di lavoro in presenza di shock specifici alle singole unità produttive.

Nel caso invece della contrattazione a livello settoriale o a livello regionale intersettoriale, l’imitazione da parte d’imprese operanti nello stesso settore spinge spesso verso l'alto i salari in tempi di boom e ritarda i necessari adeguamenti retributivi in tempi di crisi, in particolare in presenza di performance aziendali eterogenee.

Dunque, più le condizioni di produzione delle imprese sono diverse, più un sistema che si coordina principalmente a livello settoriale funge da amplificatore di shock, ritardando la necessaria riallocazione del lavoro, e inviando segnali di prezzo distorti, rispetto a sistemi coordinati centralmente o localmente.

Storicamente, negli anni ‘80 e ‘90, quando il pericolo numero uno era l’inflazione, in un certo numero di paesi europei in cui la contrattazione settoriale stava giocando un ruolo di primo piano, i governi introdussero accorgimenti per aumentare il peso del coordinamento a livello nazionale. In questo caso, l'obiettivo chiave era, per l’appunto, quello di limitare l'indicizzazione automatica dei salari all'inflazione. Inoltre, l'integrazione monetaria ha di fatto escluso l’utilizzo del tasso di cambio per compensare le perdite nazionali di competitività.

Come risultato, l'onere di aggiustamento degli eventuali squilibri di shock asimmetrici, ovvero quelli che colpiscono le economie in modo diverso e con effetti opposti, si è spostato sempre più sul mercato del lavoro. Una situazione come quella fotografata dal grafico 1 è, a tutti gli effetti, una bomba potenziale per mercati del lavoro inefficienti.

Il grafico mostra come le strategie messe in atto dalle imprese dei paesi periferici della zona Euro per assorbire gli shock negativi fossero, agli esordi della crisi, totalmente sbilanciate verso l’aggiustamento quantitativo della manodopera in eccesso, mentre le leve dei tagli o dei blocchi salariali erano in pratica inesistenti in Spagna, e, guarda caso, in Italia. In caso di shock avverso, come ben esemplificato dal caso spagnolo, la disoccupazione e la distruzione di posti di lavoro, soprattutto a termine, è stata l’unica via per riallineare domanda e offerta, a livello delle singole imprese.

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Il risultato è stato a dir poco disastroso. In paesi come Spagna, Grecia e Portogallo, dove l’indicizzazione automatica era molto frequente, in alcuni casi arrivando a coprire quasi il 70% delle imprese, l'erosione della competitività è stata dirompente, come mostrato dal grafico 2, divenuto la figura principe per descrivere il processo di disallineamento relativo fra i costi del lavoro per unità di prodotto nella zona Euro. In più, in presenza di afflussi massicci di capitale nei settori meno esposti alla concorrenza internazionale, come quello della abitazioni, l’aumento del livello dei prezzi si è scaricato nei settori più concorrenziali, erodendo la competitività di beni e servizi offerti sui mercati globali. Un vero e proprio ciclo vizioso, che ancora oggi è in fase di lento assorbimento.

Allo stesso tempo, nella maggior parte degli altri paesi dell'OCSE, il ruolo svolto dai negoziati collettivi a livello d’impresa è notevolmente aumentato, portando a una significativa decentralizzazione dei sistemi di contrattazione collettiva dal 1990 in avanti. Il decentramento ha avuto luogo in due modi principali. Una prima via, utilizzata dai Governi e dalle parti sociali, è stata quella di lasciare che gli accordi settoriali forniscano solo un quadro generale per gli accordi, mentre gran parte delle condizioni, incluse quelle salariali, sono poi contrattate a livello di singola impresa; la seconda, invece, è stata quella di permettere con maggiore frequenza e sistematicità clausole di deroga, che consentano di derogare in tutto o in parte dagli accordi collettivi settoriali.

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L'inclusione di clausole di deroga nei contratti collettivi di settore, regionali o nazionali, consentendo alle imprese l’opt-out da accordi di ordine superiore, è diventata più frequente, specialmente in Germania e Irlanda. Soprattutto il sistema tedesco, spesso accusato di “dumping” nei confronti degli altri player europei, fungerebbe da ispiratore del governo italiano, se fossero confermate le indiscrezioni che suggeriscono che l’esecutivo vorrebbe allo stesso tempo clausole di decentralizzazione, e un salario minimo legale che funga da “garanzia” per i settori e le imprese non coperte dalla contrattazione collettiva.

La “clausola Marchionne”, usata da Fiat per liberarsi della rigidità del contratto collettivo, è perciò da considerarsi una necessità dettata in gran parte dal quadro istituzionale europeo e da trend mondiali, guidati dal progresso tecnico e dall’apparire di nuovi grandi attori nel mercato globale. Esiste un’alternativa auspicabile alla maggiore flessibilità, anche nella contrattazione salariale, che non sia quella, adombrata dai no-euro, di una dissoluzione traumatica dell’unione monetaria? Anche con una propria moneta, il processo di decentralizzazione che proviene dal mercato unico globale, prima che europeo, non potrebbe essere ignorato del tutto, come per esempio segnala il caso della Svezia, paese passato da una contrattazione settoriale a una decentrata pur mantenendo la sovranità monetaria. Un paese a noi più simile, la Spagna, la cui economia si avvia a crescere a un ritmo vicino al 3% nei prossimi anni, in un continente che tuttora arranca, offre un buon caso di studio sulle potenzialità di una riforma della contrattazione decentrata.

La riforma spagnola del mercato del lavoro è stata approvata dal governo nel Febbraio 2012, con un decreto legge, confermato senza sostanziali modifiche dal Parlamento nel luglio 2012. La riforma ha modificato diversi aspetti del regolamento del mercato del lavoro spagnolo, comprese le regole della contrattazione collettiva, dando priorità alla contrattazione a livello aziendale, rispetto a quella a livello regionale o settoriale. In questo modo, i contratti collettivi possono adattarsi alle esigenze specifiche delle unità produttive.

Le imprese possono ora introdurre unilateralmente variazioni alle condizioni di lavoro (salari, orari e altre condizioni) perseguendo specifici obiettivi economici, tecnico-produttivi o organizzativi. In mancanza di un accordo con i rappresentanti dei lavoratori, il datore di lavoro disposto all’opt-out dalla contrattazione di settore può ora sottoporre unilateralmente la questione a un arbitrato tripartito, che include rappresentanti delle parti sociali e pubblici. Le decisioni arbitrali possono essere impugnate dinanzi a un giudice del lavoro solo per motivi molto limitati. Infine, i contratti collettivi possono essere prorogati per un periodo massimo di un anno dopo la scadenza del precedente accordo, al fine di incentivare le parti sociali a rinegoziare rapidamente nuovi accordi adattati alle eventuali variazioni delle condizioni economiche. Come si vede, problemi del tutto simili al caso italiano.

Il governo, di fronte allo stallo delle trattative tra parti sociali per modificare la contrattazione collettiva, ha già dichiarato di voler intervenire nel caso la situazione non si sblocchi. Noi crediamo che un intervento del genere non possa essere rimandato. A chi oppone l'autonomia negoziale di lavoratori e imprese come un totem intoccabile, andrebbe ricordato che la mancanza di coordinamento comporta notevoli costi, diretti e indiretti.

Lasciare per lungo tempo una rilevante quota di lavoratori senza un contratto rinnovato espone imprese e lavoratori stessi a sottostare a condizioni economiche e lavorative non più in linea con le condizioni economiche prevalenti sul mercato. Il vero problema sarà piuttosto come introdurre un salario minimo legale che funga da garanzia, senza però incentivare le imprese ad abbandonare la contrattazione per pagare quella cifra e non di più. Un livello prossimo ai 6/6,5 euro l’ora, pari al 45/50% del salario mediano lordo, sarebbe adeguato. Un livello più elevato potrebbe arrecare danni collaterali all’occupazione per molti lavoratori a bassa qualifica, soprattutto giovani e donne.

Nonostante la complessità della riforma, ogni inazione, nel campo della contrattazione collettiva, si tramuta in perdite secche alla produttività potenziale, oltre a rallentare il riequilibrio necessario dei costi del lavoro. Se fossimo tra i policy maker italiani non dimenticheremmo il messaggio tuttora attuale del grafico 2: o il mercato del lavoro italiano cambierà radicalmente, o resterà quel fiore appassito che gran parte delle statistiche sulla produttività continuano impietosamente a descrivere.