Spesso si sente dire che, per risolvere i problemi e le inadeguatezze dell’Unione Europea per come oggi la conosciamo, servirebbe “più Europa”. Ma cosa vuol dire esattamente? E, inoltre, siamo consapevoli delle implicazioni di una posizione del genere? Ne parliamo con il professor Alberto Bisin.

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Arginare la crisi migratoria? “Serve più Europa”. Gestire con oculatezza i conti pubblici? “Più Europa”. Contrastare il declino economico? “Più Europa”.

Nel dibattito contemporaneo del nostro continente, l’opzione “europeista” rischia di diventare soltanto un riflesso pavloviano. A meno che i suoi fautori non facciano i conti con tre limiti intellettuali a essa connessi: la presunzione fatale di carattere dirigistico legata spesso alla formula “più Europa”, il rischio della stessa formula di ridursi a un espediente retorico di élite interessate soltanto alla propria sussistenza, e infine il divario crescente tra questa opzione e il senso comune.

Così la pensa Alberto Bisin, professore italiano alla New York University, editorialista del quotidiano Repubblica e animatore del blog collettivo noiseFromAmeriKa, che, in un colloquio con Strade, ragiona su questi argomenti, ovviamente a partire dalla disciplina che più gli è cara, l’economia.

“Più Europa. Questa sembra diventata, di fronte a ogni crisi, la risposta automatica della burocrazia europea e di quelle élite che vi fanno riferimento. A me sembra innanzitutto un ragionamento ‘self-serving’, per usare un termine anglosassone”, esordisce Bisin. Dove “self-serving” non sta semplicemente per “egoistico”; è piuttosto l’espressione che gli scienziati sociali riferiscono a tutti quei processi cognitivi influenzati dal bisogno di mantenere ed aumentare la propria autostima. In altre parole, un burocrate europeo che chiede “più Europa” sta sostenendo la sua ragion d’essere.

“Allo stesso tempo la popolazione del continente mostra una stanchezza diffusa per questo tipo di integrazione”, dice Bisin - che certo è ben lontano da quelli che definiamo “populisti”: “Credo che una crescita di tipo burocratico di Bruxelles non possa che avere questi effetti, almeno nella percezione pubblica”.

Ma soprattutto è il metodo politico istituzionale associato oggi alla convinzione che occorra “più Europa” che può trascinare alla deriva le nostre economie. La crisi greca è ancora lì a dimostrarlo. L’economista della New York University non si beve la retorica del “Davide greco schiacciato dal Golia dei mercati finanziari”, eppure non manca di sottolineare “il carattere improprio di molti interventi europei nella sovranità ellenica”.

Come ha scritto su noiseFromAmeriKa, tali intrusioni “prevedevano infatti interventi molto specifici relativi ad esempio a chi, come, e quando tassare, a cosa (non) spendere, o addirittura a come delineare un codice di procedura civile. Difficile in questo contesto non chiedersi con quale diritto queste organizzazioni entrassero - e continuino a entrare - nelle decisioni politiche specifiche di uno stato sovrano”.

Invece di continuare così, su una china fatta di “comprensibili errori e pericolose umiliazioni”, a Bruxelles dovrebbero avviare una riflessione su come si è arrivati all’incancrenirsi della crisi greca, le cui responsabilità comunque, secondo Bisin, rimangono principalmente in capo ad Atene. L’idea di un’Europa “onnisciente e che tutto riesce a controllare” si è rivelata una presunzione fatale.

“Si è fatto di tutto, in questa crisi, per tenere fede a un impegno preso tanti anni fa, secondo cui ‘nessun paese uscirà mai dall’unione monetaria’. Ma ciò ha senso soltanto se si tiene fede a tutte le forme di ‘precommitment’ che ci si è dati. Invece l’Europa negli ultimi anni ha buttato a mare quei vincoli che dovevano garantire una significativa convergenza fiscale”, vedi alla voce “parametri di Maastricht” (3 per cento come tetto massimo del rapporto deficit/pil, 60 per cento per il debito pubblico, e via dicendo).

La strada verso gli errori e le umiliazioni a questo punto è segnata: “C’è il vincolo per cui ‘nessuno può uscire dal club’. Poi però la Germania non vuole, giustamente, pagare tutto il conto. A quel punto altri paesi sono contagiati dall’instabilità, e così via finché la crisi non si aggrava. Dopodiché l’unica via d’uscita sembra essere quella che vede i paesi ‘forti’ intervenire nelle minuzie della politica economica dei paesi ‘deboli’. Così la Grecia, più che con i mercati, ha avuto a che fare con le imposizioni di Bruxelles e Berlino. È un meccanismo infernale, alla lunga politicamente insostenibile”, dice Bisin.

Considerati tali precedenti, l’economista americano mette pure in guardia dal progetto di “unione fiscale” per come si va oggi abbozzando. “Le differenze culturali, sociali e politiche tra stati europei sono troppo radicate per essere appianate con un meccanismo di federazione fiscale simil-americana – dice Bisin – Certo anche gli Stati Uniti non erano così unitari nel diciottesimo secolo, ma si trattava pur sempre di una fase fondativa nazionale”. Differenze troppo marcate tra paesi possono far deragliare un’eventuale unione fiscale, anche nel caso si arrivasse a costituirla sulla carta. “Allo stato attuale avremmo una nuova unione fiscale all’italiana, con trasferimenti fissi di risorse da una parte all’altra del continente. Una struttura anch’essa insostenibile”.

Esistono obiettivi intermedi prima di arrivare agli Stati Uniti d’Europa, non crede? “Un super-commissario europeo che passa al vaglio le manovre finanziarie dei paesi membri prima che i Parlamenti le approvino è sempre meglio di una Troika che viene a cambiare leggi e manovre finanziarie quando le uova si sono già rotte nel paniere – ragiona Bisin – ma l’ottica dell’umiliazione è sempre dietro l’angolo”.

In generale, l’idea dell’economista è che “l’Europa, per arrivare a un’integrazione davvero funzionale, debba smettere di battere la strada dell’armonizzazione fiscale. Meglio la strada della concorrenza fiscale”. Da intendersi come una competizione tra Stati per raggiungere il livello di tassazione più conveniente, e così attrarre persone e imprese dagli altri paesi: “Irlanda docet, nonostante gli errori compiuti negli scorsi anni in altri campi come quello bancario”.

Da intendersi anche, però, come una competizione tra Stati per mantenere in ordine le finanze pubbliche e attrarre capitali a costi contenuti: “Concorrenza fiscale vuol dire, sotto questo secondo punto di vista, che i controlli ‘ex post’ delle finanze pubbliche non li lasci nelle mani di qualche burocrate, più o meno competente, più o meno interessato. Li lasci ai mercati dei capitali. Occorre consentire ai mercati di far saltare un paese che non dimostrasse nessuna responsabilità nella gestione dei suoi conti pubblici. Per fare ciò bisogna pure ideare meccanismi di uscita dalla moneta unica, meccanismi quanto più possibile semplici e prevedibili, per non arrivare allo stallo politico deleterio degli scorsi mesi. E bisogna pure accettare che, in linea di principio, la rinegoziazione di un debito troppo grande non è un delitto di lesa maestà”.

Negli scorsi anni, però, il mercato dei capitali ha mostrato di non distinguere bene tra un Bund tedesco e un titolo di stato greco: i tassi d’interesse erano così vicini… “Il mercato era stato anestetizzato dalla promessa che, in caso di crisi, la Germania sarebbe comunque rimasta il pagatore di ultima istanza. Per far funzionare bene questo mercato, come funziona in tutto il resto del mondo, occorre annullare quella promessa. E poi separare in maniera radicale il rischio bancario da quello sovrano, battendosi perché a tutti i livelli, dagli accordi di Basilea in giù, i titoli di stato nei bilanci degli istituti di credito non siano più considerati come esenti da rischio”. I meccanismi di mercato, insomma, prenderebbero il posto dei troppi parametri fiscali decisi a tavolino e scolpiti in trattati, regolamenti e dintorni. In questo modo le intromissioni di uno stato negli affari economici di un altro, con annesse “umiliazioni”, sarebbero limitate, e finalmente libertà (sulla finanza pubblica) tornerebbe a fare rima con responsabilità (anche di un ipotetico default).

Bisin a questo punto suggerisce di ipotizzare meccanismi “ex ante” che rendano più tollerabile, per i paesi con istituzioni che lui definisce “deboli”, questo confronto perpetuo con i mercati. “Prendiamo gli investitori che decidano di comprare debito greco o italiano. Il tasso che richiederanno alle autorità dei due paesi dipende dalla probabilità di default degli stessi. Senza un pagatore di ultima istanza, come finora si era inteso fosse la Germania, il tasso medio dovuto agli investitori potrebbe salire di molto. Una banca privata, quando deve prestare denaro, per abbassare il tasso e dunque proteggere se stessa chiede in cambio del collateral, cioè delle garanzie. Si pensi all’ipoteca sulla casa in cambio del mutuo, per esempio. Ecco, dovremmo ragionare – dice l’economista – su forme di collateral, o garanzie per i creditori, che possano essere offerte dagli Stati”.

“Ci sono ragioni, logistiche, culturali, politiche e militari, per cui il Colosseo o la regione Toscana non possono ovviamente essere offerte come collateral. Almeno oggi, perché un tempo invece tutto costituiva potenzialmente del ‘collateral’, e infatti le dispute su crediti e debiti venivano risolte con le guerre per accaparrarsi tali garanzie. Oggi potremmo replicare invece la ‘cessione del quinto’ prevista dal diritto privato italiano. Essa prevede che il debitore ceda fino a un quinto del proprio stipendio a garanzia del credito, tipicamente al consumo, e il datore di lavoro garantisca che il quinto sia versato al creditore in caso di insolvenza”.

Ecco come funzionerebbe a livello di Stati sovrani: “Un paese cede ai suoi creditori, in caso di difficoltà finanziarie gravi che possano condurre all’insolvenza parziale o totale, una parte del proprio gettito fiscale. A questo scopo è necessaria un’organizzazione internazionale abbastanza indipendente, come il Fondo monetario internazionale, che distribuirebbe tale quota di gettito tra i creditori da pagare. E, nei paesi debitori, un’agenzia di raccolta fiscale indipendente dal Tesoro che, al verificarsi di certe condizioni critiche, automaticamente giri la quota dovuta di risorse fiscali al Fmi”.

Obiezione: un paese che arrivasse in condizioni tanto critiche da non avere risorse a sufficienza per pagare tutti i creditori potrebbe sempre rinnegare la parola data e bloccare il meccanismo di storno automatico delle risorse. “Vero. Ma perché tutto questo funzioni, non ci si dovrebbe fermare a mettere nero su bianco delle regole definite a livello politico. Se si istituiscono accordi internazionali e si crea una struttura ad hoc, indipendente dalla politica, una rottura delle regole stabilite diventerebbe più difficile. Come ho già detto rispondendo ad alcune obiezioni, la Banca centrale europea non ha elicotteri in Italia e ciononostante nessuno ha ancora pensato a riaprire la zecca e stampare i nostri euro”.

La replica della “cessione del quinto” al livello degli stati sovrani, secondo Bisin, rassicurerebbe tanti creditori internazionali, spingendoli a offrire risorse in cambio di tassi d’interesse più ragionevoli. Anche in questo caso, senza garanzie implicite fornite dall’esterno dei propri confini e senza rischio di successive rudi intromissioni nella sovranità democratica. Perché correre insieme, in Europa, è meglio che azzuffarsi e frenarsi a vicenda.