Il segretario del Pd è l'ultimo leader antipolitico italiano, l'ultimo leader antisistema ad essersi affacciato nel Palazzo, ma sembra essere al contempo l'ultima carta del sistema prima del collasso.

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Adesso che è presidente del Consiglio, grazie a un premio di maggioranza niente male (con 1.895.332 voti presi alle primarie di dicembre è diventato capo del governo), Matteo Renzi vive un paradosso: il segretario del Pd è l'ultimo leader antipolitico italiano, l'ultimo leader antisistema ad essersi affacciato nel Palazzo, ma sembra essere al contempo l'ultima carta del sistema prima del collasso.

Renzi ha fatto dell'irritualità parte della sua cifra politica, lo si è visto prima al Senato e poi alla Camera, quando ha chiesto la fiducia. Nella prima scoppiettante parte del discorso a Palazzo Madama, il presidente del Consiglio ha detto ai senatori di non avere l'età per essere eletto insieme a loro – e di fatto ha ricordato la distanza che c'è fra un trentanovenne mai stato nel Palazzo e qualcuno che magari è lì da qualche decennio – poi ha annunciato che quella sarà l'ultima volta che i senatori daranno la fiducia a un capo di governo. I tacchini, pronti per essere cucinati, non hanno apprezzato. Quelli del M5S hanno fatto ironie e attaccato il premier. Renzi ha colto subito l'occasione per ingaggiare un corpo a corpo con Paola Taverna e il suo eloquio forbito ("Ma questo è pazzo!") e con il resto della truppa a Cinque Stelle. In alcuni momenti è stato persino sprezzante, come quando ha detto che i senatori del Pd devono svolgere una "funzione sociale" nei confronti di quelli del Movimento.

Ora però, archiviata momentaneamente la fase dello show, Renzi dovrà far dimenticare alla svelta il peccato originale con cui è nato il suo governo. Lui naturalmente spera sulla memoria a brevissimo termine di larga parte degli italiani, di un Paese in cui il tempo brucia velocemente, un Paese che è felice perché c'è il rigoroso Monti, poi è altrettanto felice perché c'è l'autorevole Letta e infine è felice perché è arrivato Renzi, l'alieno del Palazzo. Restare antisistema pur essendo dentro il sistema è sfida non da poco per uno che ha puntato tutto sulla diversità antropologica. E l'unico modo per non farsi dimenticare ma far dimenticare il regicidio di Letta a quelli che invece hanno memoria lunga – non sono molti, ma ci sono – è procedere speditamente con il programma di governo.

L'esordio poteva essere migliore. La squadra che lo accompagna risente, come al solito, del tabù renziano, quello della classe dirigente che non c'è. Il sottogoverno presenta qualche caso imbarazzante. Uno è quello del senatore Antonio Gentile, accusato di pressioni per non far uscire una notizia riguardante il figlio. Un altro è quello di Francesca Barracciu: se, da indagata per peculato, non andava bene per la candidatura alle regionali in Sardegna, perché dovrebbe andare bene come sottosegretario alla Cultura?

Renzi, comunque, è un formidabile one man show. Non potendo fare un governo Leopolda – pesano i no di Alessandro Baricco, Oscar Farinetti e Andrea Guerra, la triade pop del renzismo – il nuovo primo ministro ha creato una sorta di giunta, dove lui è il "sindaco" che spicca sopra gli altri. Con l'eccezione, invero non secondaria, del ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan, che infatti non è stato scelto da Renzi, ma dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Il premier si è dato l'orizzonte di legislatura, fino al 2018, ma è difficile credere che questo governo possa o voglia arrivarci. Più verosimile pensare che Renzi voglia incassare il dividendo di un anno di lavoro, che porti in dote però dei risultati da spendere in campagna elettorale. Da questo punto di vista, sono almeno due gli avversari da non sottovalutare. Il primo è il Movimento 5 Stelle. Renzi in questa fase l'ha identificato come il nemico principale, mentre Berlusconi per adesso è congelato, perché il presidente del Consiglio ha bisogno dei voti di Forza Italia per far viaggiare il governo sui binari della famosa doppia maggioranza.

Lo scontro con Grillo è più ravvicinato e immediato, perché a maggio ci sono le elezioni europee e il Movimento potrebbe fare il pieno di voti di chi vede ancora con sospetto l'Europa. Il sentimento antieuropeista potrebbe insomma prevalere e il Pd rischia di non sfondare. Naturalmente, in questo caso, Renzi sarebbe subito accusato dalla minoranza interna del suo partito di aver perduto le elezioni. Ma la prospettiva non è solo quella europea. È chiaro che il segretario del Pd vuole svuotare il serbatoio di voti grillino in vista delle elezioni politiche. È chiaro che fra coloro che hanno votato M5S ci sono anche delusi del partito guidato da Renzi, e che adesso guardano a lui con speranza. Lo sa anche Grillo, come testimonia la sgangherata performance durante le consultazioni con il presidente del Consiglio, in quel momento solo incaricato.

Grillo ha parlato all'ala dura dei suoi, quella che non vedeva l'ora di tirare un paio di ceffoni a "Renzie". Ma così facendo si aliena parte di quei voti di chi al posto della ferocia vorrebbe cominciare a ragionare sui programmi e magari confrontarsi con l'avversario. Lo dimostrano quei deputati e senatori che hanno protestato negli ultimi giorni e che sono stati cacciati o si sono dimessi. Non si sa, naturalmente, che rappresentatività abbiano rispetto all'elettorato del Movimento ed è ancora presto per capire quale sarà l'esito di questa fuga a livello parlamentare. Non è detto, infatti, che questi senatori (che potrebbero anche veder respinte le loro dimissioni; serve il voto dell'aula e a scrutinio segreto) possano aiutare Renzi. E' possibile anche che, invece, avvantaggino la minoranza interna del Pd, a cominciare da Pippo Civati, che sta provando già a capitalizzare. L'altro nemico, poi, come detto, è Berlusconi, che adesso attende e osserva che cosa combina il "ragazzo". Se Renzi vorrà essere il candidato "pigliatutto" alle prossime elezioni politiche e (ri)conquistare l'elettorato berlusconiano, dovrà usare tutta la sua proverbiale trasversalità post-ideologica.

@davidallegranti