kundun grande

Se vi è un tema politico che, negli ultimi anni, è passato dall’essere al centro di dibattiti e manifestazioni ad essere quasi dimenticato, questo è senza dubbio la questione del Tibet. Fino a un decennio fa, il messaggio di lotta non violenta del Dalai Lama trovava numerosi sostenitori in Occidente, compresi molti rappresentanti del mondo dello spettacolo. Un esempio di questo sostegno è “Kundun”, film di Martin Scorsese uscito nel 1997, che dopo 25 anni ha molto da dirci su com’è cambiata la nostra percezione di determinate questioni.

La pellicola narra la giovinezza di Tenzyn Gyatso, il XIV Dalai Lama: si parte dall’infanzia in un villaggio sperduto, finché Lhamo, come si chiamava alla nascita, viene notato da un funzionario di governo convinto che quel bambino sia la reincarnazione dei precedenti Dalai Lama. Da qui inizia la sua formazione per diventare un giorno la guida del suo paese, finché quest’ultimo non è invaso dalla Cina e Tenzyn viene costretto a cercare rifugio in India, verso la fine degli anni ’50.

In questo biopic, Scorsese tende a mescolare storia e leggenda: si dà credito agli eventi che portarono i monaci e credere che il piccolo Lahmo ricordasse le sue precedenti vite, è data molta importanza alle profezie riguardo alla fine del Tibet libero e un ruolo chiave viene giocato dai flussi di coscienza del protagonista, che lo fanno apparire quasi come un individuo a metà strada tra l’umano e il divino, che vuole solo la pace e la serenità per il proprio popolo. Ciò lo mette anche in netta contrapposizione con il materialismo dei comunisti cinesi, che affermano di voler liberare i tibetani dal Dalai Lama “oppressore”, salvo poi compiere massacri e saccheggi. Emblematiche le parole di Mao Tse tung, che al Dalai Lama venuto per negoziare disse che “la religione è veleno”.

Quella di mescolare realtà e leggenda è una tattica usata anche da Bernardo Bertolucci nel suo film del 1993 “Piccolo Buddha”, in cui, attraverso i racconti di due monaci tibetani esiliati in Bhutan, veniva narrata la vita del fondatore del buddismo riportando tutti gli avvenimenti mistici che gli sono stati attribuiti. Dopo aver passato gran parte della propria esistenza ad incitare alla rivoluzione comunista, il regista parmigiano ha riscoperto in età più tarda una certa spiritualità tramite il contatto con i popoli dell’estremo Oriente, che gli aveva già fornito molti spunti per il suo capolavoro del 1987 “L’ultimo imperatore”.

Tornando a Kundun, bisogna dire che trama e i dialoghi risultano spesso monotoni, soprattutto durante i flussi di coscienza di Tenzyn, ai quali si alternano scene che descrivono con cura le questioni storiche e geopolitiche legate al conflitto tra il Tibet e la Cina. Le interpretazioni sono discrete, nonostante la poca espressività dell’attore principale Tenzin Thuthob Tsarong (che nella vita reale è il pronipote del vero Dalai Lama). Infine, spiccano le ricostruzioni di paesaggi tibetani, poiché non si è potuto girare sul posto, per ragioni politiche.

Oggi sarebbe molto più difficile realizzare un film del genere, in quanto la Cina è diventata uno dei più grandi mercati cinematografici al mondo: nel paese si trovano oltre 82.000 sale cinematografiche, e si prevede che arriveranno a superare le 100.000 entro il 2025. Negli ultimi anni i cinesi hanno anche provato a produrre film studiati per esercitare il soft power ai di fuori dei propri confini: nel 2015 uscì il film “L’ultimo lupo”, finanziato dal governo di Pechino e diretto dal regista francese Jean-Jacques Annaud, noto per aver adattato al cinema nel 1986 “Il nome della rosa” di Umberto Eco.

Il caso di Annaud è esemplare per capire la loro tattica: nel 1997, stesso anno di “Kundun”, uscì nelle sale il suo film “Sette anni in Tibet”, tuttora al bando in Cina per le sue posizioni filo-Dalai Lama, e lo stesso regista per anni non è potuto entrare nel paese. Negli anni precedenti all’uscita de “L’ultimo lupo”, Annaud fece pubblicamente marcia indietro su quello che era stato visto come il suo precedente sostegno alla causa tibetana, e parlò bene dei censori cinesi che stando alla sua versione gli avrebbero dato carta bianca per il film successivo, dove tuttavia ridusse i riferimenti critici verso il governo cinese che si trovano nel romanzo originale da cui è tratto, per farne una semplice storia sul rapporto tra uomo e natura.

Un altro caso di soft power degno di nota riguarda “The Great Wall”, film d’azione fantasy uscito nel 2016 che presentava l’attore americano Matt Damon nei panni del protagonista. Agli occhi di molti analisti faceva parte di una strategia per influenzare positivamente la percezione della Cina all’estero: la casa di produzione Wanda che l’ha finanziato è vicina al Partito Comunista. Tuttavia, il film fu accusato dalle comunità asiatiche in America di whitewashing, ossia di consentire ad un bianco di sottrarre un ruolo che spetterebbe di diritto ad un'altra etnia.

In conclusione, Scorsese ha saputo offrire al grande pubblico una vera e propria dichiarazione d’amore per il messaggio pacifico e la devozione spirituale del leader tibetano e del suo popolo. Un messaggio che andrebbe ricordato in un momento in cui la causa tibetana è stata messa in un angolo, forse per paura di inimicarsi il pubblico cinese, sempre più importante per l’industria del cinema, al punto che il governo cerca di sfruttarlo a fini di propaganda. Inoltre, in tempi come questi le gesta del Dalai Lama ci ricordano qual è la differenza tra una lotta nonviolenta, ma decisa e costante, e un pacifismo ingenuo e sottomesso.