di maio xi jinping grande

L’italico vagheggiamento del “modello cinese” non ha nulla a che vedere col desiderio di imitazione delle presunte capacità dimostrate dal Paese asiatico nella gestione della crisi da Coronavirus.

Non è il preteso risultato sanitario raggiunto dai cinesi a essere invidiato con volontà di importazione, ma il dispositivo militare e di polizia messo in campo dal regime per ottenere quel risultato. Perché si tratta di un dispositivo “totalizzante”, risentito come necessario siccome implica ed esaurisce ogni iniziativa possibile contro un nemico che occorre sconfiggere con ogni iniziativa possibile.

Questo meccanismo si è eccitato in modo esemplare qui da noi, e la fluidità con cui funziona non trova revoca nelle peraltro sparute obiezioni rivolte alla salvaguardia della nostra temperie civile. Dice: facciamo quel che è necessario, ma attenzione “ai diritti”. Che è una formula vuota di contenuto e piena solo di retorica, e che rimane perplessa davanti a una teoria di fatti contrari messi in rassegna a ridicolizzarla.

Stiamo attenti ai diritti, mentre la libertà di movimento è arrestata: arrestiamola ed accettiamo che sia arrestata, ma con disciplinata cautela. Stiamo attenti ai diritti, mentre la sanzione penale organizza la liceità delle dichiarazioni da rendere al militare officiato a sbirro: sottoponiamoci a questa patriottica necessità, ma con giudizio.

E ancora stiamo attenti ai diritti, mentre gli economisti della stampa coi fiocchi spiegano che non è tempo di discutere di libertà personali e il virologo di regime intima di farla finita con la solfa della privacy richiamata a intralcio dell’inevitabile tracciamento dell’untore.
E tutto questo illustra come non sia inutile né gratuito né inattuale ricordare che l’agognato “modello cinese” è incompatibile già anche solo a livello teorico con la tenuta a livelli decenti della convivenza democratica: perché la pratica provvede immediatamente a dimostralo senza bisogno di farne teoria. E vi provvede - et pour cause - nel disinteresse comune e ad onta di quel vacuo e routinario richiamo all’importanza “dei diritti”.

In calce al suo Golia, Giuseppe Antonio Borgese scrisse che “Non dagli altri gli Italiani riceveranno la libertà, ma da loro stessi”. Aveva ragione: ma sbagliava se sperava che di lì a poco gli italiani ce l’avrebbero fatta. Aveva ragione pensando che la mancanza di libertà degli italiani avrebbe potuto emendarsi solo in forza di autonoma resipiscenza di questo popolo tragicamente proclive alla soluzione illiberale. E sbagliava sperando che gli italiani si sarebbero dati da sé la libertà alla fine della marcia del fascismo. L’hanno ancora ricevuta da altri, e l’hanno patita come si soffre l’azione di un agente estraneo e malevolo: come si soffre un virus.

In qualche settimana di Coronavirus l’Italia ha ritrovato pienamente sé stessa.

@iurimariaprado