L’aggressione russa all’Ucraina è, fra le altre e assai più tragiche cose, uno scontro fra due modelli di leadership opposti: da un lato un ex tenente colonnello del KGB, feroce e revanscista, alla disperata ricerca di quella “solidità” che ha cercato nelle pulsioni nazionaliste e nella ri-cristianizzazione postsovietica della Russia (si tratta, per farla breve, di reazionarismo…); dall’altro, assai più “occidentalmente”, un ex imprenditore ed ex attore e sceneggiatore comico – anche il mondo dello spettacolo, in Occidente, si fa fucina di homines novi: si tratta di un effetto collaterale della televisionizzazione della politica – che diventa “blackmirrorianamente” Presidente della Repubblica ucraina subito dopo aver interpretato… il Presidente della Repubblica ucraina in una serie tv, “Servitore del popolo”, per poi diventare, in un crescendo di solennizzazione col quale la realtà ha superato la finzione, eroe della resistenza, se non perfino leader del mondo libero, come si spinge a dire chi individua in lui tratti churchilliani.

Cosa può dirci, quella serie tv, dello status quo politico-ideologico dell’Ucraina stessa e del centrismo di Zelensky? Nella prima stagione, quella che verrà trasmessa in prima visione su La7 da lunedì, un professore di storia squattrinato viene eletto Capo di Stato col 60% dei suffragi – sembrerebbe un plebiscito ma, sempre in tema di realtà che supera la finzione, Zelensky, quello vero, nel 2019 ottenne il 73% – dopo che il video di una sua sfuriata contro la corruzione, girato clandestinamente da uno studente, diventa “virale”, come si dice oggi. Da lì si avvia una tensione costante tra pragmatismo gradualista e tentazioni massimaliste: Vassily Petrovich, questo il nome del personaggio interpretato da Zelensky, è appunto tentato ora dall’idea di un radicale repulisti (durante il primo Consiglio dei ministri la sua mente proietta una sequenza in cui lui, con l’approvazione di un redivivo Che Guevara, revoca l’incarico all’intero esecutivo dopo una sfuriata liberatoria) ora accetta di nominare i suoi in pochissime per quanto fondamentali cariche di vertice, fra cui quella di governatore della banca centrale, che affida all’ex moglie.

Certo, c’è – tanto in Petrovich quanto nel primo Zelensky – la glorificazione dell’inesperienza intesa come garanzia di onestà; ma questo approccio vanta, rispetto al qualunquismo grillino cui è inevitabile pensare quale termine di paragone, almeno due attenuanti: quella di Petrovich-Zelensky è un’inesperienza protesa verso il superamento di sé stessa, mentre il grillismo degenera spesso e volentieri nell’orgoglio dilettantista; l’Ucraina è effettivamente e continuativamente depredata dagli oligarchi-cleptocrati blindatisi nelle stanze del potere politico-economico (all’inizio di diversi episodi li si vede giocare a monopoli su una mappa che raffigura l’Ucraina…) e i “competenti” sono spesso e volentieri dei cavalli di troia con buone scuole, mentre al popolino è precluso il completamento di ciclo di studi qualitativamente passabile; dalle nostre parti, invece, l’analfabetismo politico-istituzionale ed economico e la perpetuazione al potere di notabili arraffoni sono nella stragrande maggioranza dei casi scelte di popolo consapevoli e strumentali.

In quest’ottica, anche la ribellione “anti-casta” ucraina – ancora una volta, tanto in Zelensky quanto nel personaggio di fantasia che ha interpretato – è tutt’altra cosa dalla retorica poveraccista e “onestista” grillina.

Nel terzo episodio di “Servitore del popolo” Abram Lincoln appare a un Petrovich sconfortato dalla resistenza alla modernizzazione oppostagli dal sistema: «se anche io, che vengo da una famiglia semplice come te, sono riuscito ad abolire lo schiavismo, anche tu puoi liberare il tuo popolo» gli dice, con tono motivazionale, lo statista statunitense; «ma il nostro non è un sistema schiavistico» gli risponde Petrovich, Lincoln ribatte: «non pensi che se milioni di ucraini pur spaccandosi la schiena vivono nella miseria per mantenere gli oligarchi e le loro limousine e le loro magioni, allora si tratta di un sistema schiavistico?».

Nell’episodio successivo il papà di Petrovich usa il nome del figlio neo-presidente quale garanzia per la concessione di un prestito e si concede dei lussi che invece, dalle nostre parti, consideriamo accessibili anche alla piccola borghesia: uno schermo piatto, un robot aspirapolvere e uno da cucina – a proposito del quale viene data una definizione deliziosa: «possiamo considerare questo elettrodomestico come un oggetto che realizza il “comunismo giusto”: a ciascuno secondo i suoi bisogni malgrado le sue incapacità» (possiamo dedurne che al “comunismo giusto”, cioè allo sviluppo tecnologico che proietta i suoi benefici anche e soprattutto sulle classi sociali medie e medio-basse, si giunge paradossalmente tramite la competitività capitalistica…).

Questo umorismo anche velatamente antirusso, peraltro, ricorre in ogni episodio, ma non degenera mai in “russofobia”: si tratta piuttosto di una sdrammatizzazione gentile della continua fuga della maggior parte degli ucraini dall’abbraccio moscovita. (Zelensky, poi, è bilingue e favorevole all’istituzionalizzazione del bilinguismo, cosa che assieme alla linea diplomatica adottata con l’orso russo lo ha esposto, in tempo di pace, all’accusa di intelligenza col nemico).

Il poveraccismo grillino, invece, è (stato?) filoputiniano e soprattutto decrescitista. Ma gli ucraini hanno sperimentato che la decrescita – nella quale sono ripiombati dal 2008 in poi, dopo la luna di miele avviatasi nel 1999 in virtù di una politica creditizia accomodante e condizioni di export vantaggiose, fattori contingenti che hanno disincentivato cambiamenti strutturali – gli ucraini, si diceva, hanno sperimentato che la decrescita è tutt’altro che “felice”.

Felice, in Ucraina, è solo l’élite arraffona: perciò certi “eccessi” nella pretesa e nell’esibizione di austerità istituzionale e onestà sono più comprensibili lì che qui. Qui Mani Pulite fu la ribellione, nel bel mezzo di un tenore di vita che per quanto timidamente eroso dall’inflazione era comunque trasversalmente edonistico, fu la ribellione della massa contro sé stessa ma dirottata tramite una furbata robespierriana verso i capri espiatori già condotti sul patibolo delle procure della Repubblica – e l’exploit del grillismo fu una sorta di farsa che replicò quella tragedia; lì invece con la rivoluzione arancione e con euromaidan e con Poroshenko e infine con Zelensky hanno provato, oltreché a fuggire come si diceva dall’abbraccio moscovita, a trovare la via politica per una transizione da un sistema oligarchico a uno post-oligarchico. Forse con un po’ di enfasi si potrebbe definire quello ucraino un populismo dal volto umano.

Per questo tutte le affinità tra i grillini e Petrovich-Zelensky già citate e tante altre ancora – la fissa nel girare senza scorta e auto blu, il “taglio” dei parlamentari, l’abolizione dell’immunità parlamentare ecc. – sono sempre meno tali, se lette alla luce della diversità dei contesti in cui esse si sono sviluppate e dalla consapevolezza con cui vengono proposte agli elettori-spettatori.
La consapevolezza autocritica, ad esempio: il drammatico monologo di Petrovich al termine del quindicesimo episodio colpevolizza la “mentalità ucraina” anziché, populisticamente, i soli oligarchi, individuando un “problema culturale” alla base dell’opposizione fra la miseria in cui sguazzano i moltissimi e l’opulenza in cui sguazzano i pochissimi.

La consapevolezza, ad esempio, di quanto la cosa possa essere complessa e rischi di degenerare nella solita messinscena: nel sesto episodio, ad esempio, si vede un deputato farsi accompagnare con l’auto blu a cento metri dal Parlamento e lì tirar fuori una bici con cui fare ipocrita sfoggio di austerità fino all’ingresso d’avanti le telecamere delle tv nazionali. Impossibile non pensare a Roberto Fico nel bus nei primissimi giorni da presidente della Camera. Perfino la finzione comica e satirica ucraina è meno comica della farsa grillina.