gattopardo grande

Il 10 Gennaio 1987 Leonardo Sciascia firmò sul Corriere della Sera il suo pezzo più celebre: “I professionisti dell’antimafia” – il titolista è Nino Milazzo e quel titolo lì fu un successo professionale ineguagliabile.

Sciascia, recensendo un pamphlet di quello che allora era «un giovane ricercatore dell’Università di Oxford» e poi diventò… Christopher Duggan, sul serio c’è bisogno di star lì a spiegare chi sia – chi sia stato, purtroppo – Christopher Duggan? Si diceva, recensendo “La mafia durante il fascismo” di Duggan, Sciascia vi individua la teorizzazione dell’antimafia come strumento di potere.

«Come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange “rivoluzionarie” per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfare, costoro dovevano […] liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti. […] L’innegabile successo delle operazioni repressive del prefetto Mori […] nascondeva anche il gioco di una fazione fascista conservatrice e di vasto richiamo contro altra, che approssimativamente si può dire progressista, e più debole. Sicché se ne può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime – o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come mafioso».

Per farla breve, Sciascia scriverà più giù che questo barbatrucco lo si può usare anche in democrazia, e punta il dito contro Leoluca Orlando e il CSM, il primo in quegli anni era un fiume in piena di retorica antimafia e il secondo assegnò il posto di procuratore della repubblica a Marsala a Paolo Borsellino anziché a Giuseppe Alcamo, perché questi, nonostante fosse più anziano, non s’era mai occupato di mafia. Ecco, questa cosa dell’antimafia come strumento di potere va maneggiata cum grano salis, però è un fatto che basta cucirsi addosso, magari con la complicità di un equivoco, la tunica di unto dell’antimafia per diventare un pokemon invincibile… e chiunque sollevi un sopracciglio al cospetto dell’unto viene ipso facto squalificato come collaborazionista se non perfino come mafioso egli stesso.

C’è, dunque, Leonardo Sciascia. Ma c’è anche e soprattutto lo stra-citato Giuseppe Tomasi di Lampedusa – al quale dovremmo chiedere scusa per l’uso/l’abuso improprio che facciamo dello stemma di casa Salina. Il "gattopardismo" di Don Fabrizio e del nipote Tancredi Falconeri è tutt'altra cosa rispetto allo speedy-camaleontismo della piccola e grande borghesia siciliana scopertasi fascista nel '23, berlusconiana negli anni del 61 a 0, renziana durante la stagione breve della rottamazione, grillina negli anni d'oro del tandem Grillo-Casaleggio e magari adesso sovranista.


Don Fabrizio, principe di Salina, si convertì al verbo "unitarista" non senza travaglio interiore e perfino presagi di morte, la morte anzi permea di sé un po' tutto il romanzo, c'è odore di putrefazione sin delle prime pagine (di fatto, comunque, Don Fabrizio non si convertì mai effettivamente al verbo unitarista); lo stesso Tancredi imbracciò il fucile per evitare che "quelli" gli combinassero la Repubblica, sebbene per come lo visse lui il Risorgimento fu poco più che una sessione di softair. 
Oggi basta impostare "prima gli Italiani!" come status WhatsApp ed è fatta.


Poi c'è anche un fatto di, come dire?, caratura umana: durante il primo, solenne pranzo di benvenuto a Donnafugata don Fabrizio non si mise in abito da sera «per non imbarazzare gli ospiti che, evidentemente, non ne possedevano"… Ma don Calogero Sedara, papà di Angelica – la Miriam Leone di Donnafugata… che poi era Claudia Cardinale, una delle pochissime a cui dare della Miriam Leone è riduttivo – nonché paradigma della borghesia emergente, si presentò in frack, per di più un frack di bassissima sartoria… Un po' come se un new-money di oggi si presentasse al circolo del golf con un coccodrillo grosso o la figura stilizzata di un cavallo montato da un giocatore di polo stampata sulla polo presa all'outlet; ecco, oggi abbiamo molti più "don Calogero" che non "don Fabrizio" (e cioè arrivisti "non eleganti" che campano di prebende pronti a baciare pantofole e a tasserarsi qua e là… in Italia, a maggior ragione in Sicilia, è sempre mancata una borghesia nel senso weberiano del termine).

Don Fabrizio amava l'astronomia e detestava la contabilità, era insomma proiettato "ad sidera", don Calogero non riusciva a non quantificare il valore economico di qualunque cosa vedesse, un barbaro, un nichilista privo di qualunque sensibilità estetica (Tomasi di Lampedusa ha ovviamente idealizzato il ceto d'appartenenza e tradito un forte pregiudizio antiborghese, era in conflitto d'interessi, ma tant'è)… Insomma, lo pensò il principe stesso congedando Chevalley, venuto a offrirgli per conto dei piemontesi uno scranno al Senato: «noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene». Infatti lui rifiutò quello scranno, mentre i baby-gattopardi – pardòn: gli sciacalletti – di oggi si affiliano a chicchessia anche solo per poter accedere al consiglio comunale.

Ricordiamocene, ri-vedendo Don Fabrizio & Angelica ballare, quanto costasse e quanto fosse comunque elegante gattopardeggiare… E quanto oggi sia facile e burino giurare fedeltà al primo ras delle preferenze che passa, open bar incluso. Questo porta al totale venir meno del principio di responsabilità politica, un pilastro della democrazia rappresentativa: sfiduciati che si ri-candidano nelle file degli sfiducianti, ex consiglieri provinciali ex consiglieri regionali ed ex quant’altro che si ripresentano tronfi nell’arena elettorale e forti del loro aver fatto non si sa bene cosa quando hanno rivestito quei ruoli. Il guaio è che clienti e sprovveduti ridanno e ridaranno loro “fiducia” fino alla fine dei propri giorni (più spesso si tratta di un do ut des, laddove il “des” possono essere contratti a tempo determinato e indeterminato o promesse non mantenute).

Ci sono dunque Leonardo Sciascia e Giuseppe Tomasi di Lampedusa, poi c’è anche quella storia lì, quella dei tipi che si sedettero dalla parte del torto perché eccetera, il punto è che talvolta c’è solo da restare in piedi, perché l’Anfiteatro del Torto e della Ragione è completamente sold out; e c’è, infatti, José Saramago, c’è il suo “Saggio sulla lucidità”, gli elettori della capitale di non-si-sa-quale-Stato quasi unanimemente lasciano intonse le schede prima di inserirle nell’urna – c’è un link con l’epidemia di cecità che qualche anno prima aveva gettato nel caos quella città? Che tipo di astensionismo era?

Esiste solo un astensionismo da spoliticizzazione (specie dalla caduta del muro di Berlino in poi) o c’è un anche astensionismo da opinione? (Figlio, quest’ultimo, della spoliticizzazione, sì… ma non della domanda, quanto piuttosto dell’offerta politico-partitica, tanto più vuota quanto più si restringe la dimensione dell’entità sub-statale nella quale si vota, è pieno di quelli che in letteratura scientifica si chiamano astensionisti da elezione di secondo ordine). Chissà.

Volendo, per farla perfino più chiara, c’è pure J.K. Rowling, diciamo che se la giunta del ministero della magia fosse ambita da un lato da Lord Voldemort e dall’altro da una grosse koalition composta da Lucius Malfoy, Codaliscia e tanti altri ex voldemortiani di ferro folgorati sulla via di Privet Drive (al civico n° 4, per l’esattezza) e perfino maghi oscuri di altrove provvisti di consistenti pacchetti di voti, ecco, in tal caso cosa dovrebbe fare una Hermione Granger?

C’è che in fondo le realtà locali hanno dato torto a J. M. Keynes e alle sue buche da scavare e riempire per riassorbire l’eccesso di offerta di lavoro; le buche si scavano da sé e la solita colata di bitume si fa attendere così tanto che l’unico effetto macroeconomico rilevabile lo si deve andare a cercare nel fatturato dei gommisti. C’è che in fondo le realtà locali hanno dato ragione a Milton Friedman, che in visita nel Cile di Pinochet (!), durante una conferenza stampa, dichiarò: «un’economia libera è una condizione necessaria per una società politicamente libera; disgraziatamente, non è una condizione sufficiente» – e forse da Milano in giù ci si può fermare al punto e virgola.