Gli esclusi dalla rappresentanza e il tradimento dei riformisti
Terza pagina
L’ultimo articolo su Strade di Giovanni Perazzoli è un’ottima occasione per provare ad allargare il dibattito di questi mesi in seno all’ampia e variegata casa liberale e riformista.
Se ne apprezzo molto l’idea di criticare la sinistra sui suoi ventri molli concettuali, ossia un certo pauperismo mai scomparso e un’allergia alla conoscenza quantitativa, dall’altro lato temo che l’argomentazione sia auto-assolutoria e sovrastimi la presenza di veri intellettuali nel M5S. In merito a quelli citati nel pezzo, mi pare di poter interpretare le simpatie di Dario Fo e Stefano Rodotà come dei tentativi di scuotere un sistema inviluppato più che delle adesioni complete (mancando se non altro una base culturale a cui aderire). Ed è invece importante notare che tuttora mancano opinioni strutturate e voci nuove nel M5S, un movimento sostanzialmente dell’iper-presente e attento ai sondaggi.
Per ribattere la tesi principale dell’articolo, ossia che “il populismo rosso-bruno è una parodia [...] di quanto di illiberale c’era già in tanta ‘cultura alta’”, proverò a sostenere che il populismo affonda le sue radici nell’esclusione cognitiva operata dal riformismo e che, nonostante l’ironia finale nell'articolo che mi accingo a discutere, la tecnica è veramente un problema per la democrazia.
Lo faccio a malincuore, essendo tuttora un liberale riformista, ma credo che sia necessaria un’autocritica meno banale, perché, finora, non ho trovato convincenti spiegazioni delle ragioni della sonora sconfitta del 4 marzo. Ripercorriamo per sommi capi la storia del principale partito di sinistra: i DS digerirono la fine del comunismo accettando una cornice ideologica liberale, attenta (in teoria) alle esigenze della società. Introdussero la flessibilità sul lavoro, si fecero portavoci della sussidiarietà. Il PD di Veltroni seguì convintamente la cosiddetta “terza via”, inseguendo il new labour, Renzi eliminò un baluardo della sinistra come l’articolo 18, appoggiando Marchionne, non lesinando critiche ai sindacati. Con i famosi 80 euro provò a ridare fiato alla classe medio-bassa, il suo governo fu attento ai conti pubblici, e contenne la spesa.
Probabilmente, senza la crisi economica, il riformismo avrebbe prodotto buoni risultati, in tempi non brevissimi, e i partiti che lo abbracciavano sarebbero sopravvissuti. Quando oggi ci troviamo un PIL inferiore a quello di 10 anni fa è evidente che dal 2008 c’è stata una ecatombe, a cui si stava aggiungendo dal 2001 (ingresso nel WTO della Cina) un concorrente devastante per i nostri prodotti a basso valore aggiunto.
Di fronte a un’ecatombe non si può reagire con la buona manutenzione, con risparmi e chiedendo i sacrifici ai soliti (quanti giovani hanno uno stipendio decente oggi?). Sarebbe stata una buona occasione per ripensare l’anemico capitalismo italico, per risvegliarne le forze sopite, attirare capitali e creare lavoro di qualità, costruire un piano almeno a medio termine di welfare e di formazione permanente. Un piano che, al di là dei necessari tecnicismi, avrebbe dovuto coinvolgere la cittadinanza su obiettivi e orizzonti più ampi.
Invece c’è stato - eccome! - il tradimento delle élite. In esordio ho scritto di “esclusione cognitiva”, perché ritengo che il tradimento sia stato anche metodologico: il riformismo e il liberalismo si sono chiusi, avendo in fondo vinto la competizione nel mondo delle idee, nella propria salda fortezza fatta di numeri, di economia e diritto, di saperi tecnici e iper-specializzati. Si sono illusi che l’offerta di buone soluzioni ai problemi avrebbe soddisfatto le persone e gli elettori. Niente di più sbagliato: le persone per vivere pienamente cercano un senso nel proprio agire, vogliono sentirsi parte di una collettività, avere un qualche ruolo, esprimersi su ciò che li riguarda.
L’iper-specializzazione dei saperi ha reso impossibile la partecipazione al discorso pubblico, se non per le questioni più irrilevanti (apertura vs chiusura dei negozi la domenica) su cui assistiamo a confronti di buon senso del tipo “le famiglie hanno diritto di riunirsi” che in fondo esprimono il disagio di non riuscire a partecipare - più che vere soluzioni. Le acuite disuguaglianze e la fine della mobilità sociale sono veri problemi (discussi anche dalla sinistra che Perazzoli critica) perché buona parte degli italiani non sono stati invitati alla festa del capitalismo e, pertanto, soffrono di un legittimo sentimento di esclusione.
Per quanto possa apparire retorico, il salvataggio delle banche con miliardi veri, a fronte della crescente povertà, è stato uno schiaffo letale ai sostenitori tiepidi del PD: gli esclusi hanno avuto conferma di non avere una rappresentanza politica, di non essere ascoltati, di non partecipare all’identificazione delle priorità del governo. E pazienza se abbiamo evitato un effetto domino e tenuto in piedi un’economia bancocentrica: chi non ha lavoro o un salario decente non ha ricevuto alcun beneficio diretto.
Non sarà certo la “vera sinistra” la risposta a questi problemi, beninteso, ma pensare che il lavoro politico si limiti a trovare soluzioni non aiuterà il riformismo a riemergere come forza di governo.
La tecnica non è un problema in sé, ed è ovvio che la soluzione non consista nel perderla: i problemi di policy richiedono competenze ed expertise elevate. È un problema quando non porta a interrogarsi più a fondo sul proprio ruolo e sulla mancanza assoluta di partecipazione di ampi strati della società che disertano le sedi dei partiti e, ormai, anche le elezioni. È un problema quando non ci si accorge che si è privi degli strumenti per includere, ahimè patrimonio soprattutto della cultura umanistica, e invece di ammetterlo si accusa il popolo di essere ignorante e incompetente.
Non possiamo credere che i nostri genitori fossero più colti di noi: la politica dei vecchi partiti offriva loro una visione del mondo e, almeno i due più rilevanti, una visione del proprio destino. Ciò consentì loro di impegnarsi in una militanza attiva, di avere fiducia nei politici e nel proprio futuro. La sfida che ci si presenta è certamente grande, ma forse è più appagante di creare un software contro le fake news, di curare i sintomi senza avere una diagnosi decente.