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The Vory. Russia’s Super Mafia, il libro pubblicato in aprile da Mark Galeotti, ricercatore all’Istituto di Relazioni Internazionali di Praga, tra i massimi esperti mondiali di criminalità organizzata, è destinato a diventare l’imprescindibile testo di riferimento per tutti coloro che, a vario titolo, vogliono comprendere le origini, l’evoluzione e il ruolo oggi esercitato dalla mafia russa. Con il crollo dell’URSS e il fenomeno della globalizzazione, la malavita organizzata russa è divenuta infatti un attore internazionale al pari di quella italiana, cinese, giapponese e colombiana.

Il libro di Galeotti, frutto di quasi trent’anni di ricerca sul campo, è un saggio storico che coniuga rigore filologico, consolidata competenza negli studi di criminologia e una prosa avvincente che lo rende di piacevole lettura nonostante la complessità della materia trattata. 

Nel 1988 l’autore, impegnato in una tesi di dottorato sull’impatto della guerra sovietica in Afghanistan, entra in contatto a Mosca con alcuni veterani del conflitto. Galeotti vuole studiare il percorso di reinserimento degli afgantsy, ossia capire le strade intraprese da questi ex soldati una volta tornati alla vita quotidiana. A tale scopo li incontra una prima volta appena rientrati dal fronte e torna a far loro visita dopo un anno.

Scioccati, arrabbiati, pieni di racconti di terrore, inaspriti o intorpiditi, la maggior parte di essi l’anno successivo aveva tuttavia ripreso a vivere come prima di partire per l’Afghanistan. Gli incubi erano scomparsi, le memorie più atroci erano state rimosse, solo alcuni non erano riusciti a reinserirsi ed erano diventati dipendenti da alcol e droghe.

A colpire l’attenzione di Galeotti è un reduce in particolare, Volodya. Mentre la maggioranza degli afgantsy ha difficoltà a sbarcare il lunario ed è costretta a impegnarsi in più attività lavorative, a quest’ultimo il denaro non manca mai. Qualche tempo più tardi l’autore scopre che Volodya è un sicario. L’Unione Sovietica sta crollando e la criminalità organizzata “sta emergendo dalle rovine, non più subordinata ai capi corrotti del Partito Comunista e ai milionari del mercato nero”.

Il crimine organizzato porta con sé una nuova generazione di reclute tra cui ex veterani di guerra imbruttiti e disillusi. Alcuni diventeranno guardie del corpo, altri contrabbandieri e picchiatori, altri ancora, come Volodya, assassini. Galeotti decide allora di approfondire lo studio di un fenomeno che di lì a poco, con il crollo dell’URSS, si espanderà a macchia d’olio in tutte le ex repubbliche e interesserà il mondo intero.

“Grazie a Volodya e a quelli come lui – scrive Galeotti nella prefazione – sono diventato uno dei primi studiosi occidentali a sollevare l’allarme sulla crescita e sulle conseguenze della criminalità organizzata russa, qualcosa la cui presenza, a parte poche qualificate eccezioni (tipicamente studiosi emigrati) era stata in precedenza ignorata”.

 

Una mafia particolare

Il testo, diviso concettualmente in quattro sezioni che analizzano rispettivamente la nascita del vorovskoi mir , il suo sviluppo dall’epoca di Stalin fino ai ‘selvaggi’ anni Novanta, le sue specificità etnico - antropologiche e le probabili evoluzioni future, affronta tre temi chiave.

Il primo è l’unicità dei gangster russi. “Mentre per certi versi un gangster è un gangster in tutto il mondo, e probabilmente i russi stanno diventando parte di un ‘mondo sotterraneo’ sempre più omogeneo, la cultura, le strutture e le attività dei criminali russi sono state per lungo tempo distintive, non ultimo il loro rapporto con la società tradizionale”.

Il secondo è legato al fatto che i gangster russi fanno da specchio alla società russa. “Esplorare l'evoluzione del ‘mondo sotterraneo’ russo dice anche qualcosa sulla storia e sulla cultura russa, ed è particolarmente significativo oggi, in un momento in cui i confini tra crimine, affari e politica sono importanti ma troppo spesso indistinti”.

L’ultimo tema attiene al rapporto di interdipendenza tra criminalità organizzata e la nuova Russia. Se è infatti vero che “i gangster russi sono stati modellati da una Russia in cambiamento” è altresì palese che gli stessi criminali hanno contribuito a modellarla.

Ciò non significa – precisa Galeotti – che la Russia sia governata dalla criminalità organizzata. Anche nella Federazione ci sono ufficiali di polizia e giudici impegnati a combattere il crimine. Ma non deve passare inosservato il fatto – puntualizza l’autore – che diversi politici e uomini d’affari usano spesso metodi che devono più al vorovskoi mir che alle pratiche tipiche di uno stato di diritto. “Lo stato utilizza hacker e gangster armati per combattere le sue guerre, per le strade si possono sentire sia le canzoni dei vor, sia il loro slang. Anche il Presidente Putin adopera talvolta questo linguaggio per riaffermare le sue credenziali di strada”.

Forse – scrive ancora l’autore nella prefazione – il vero interrogativo di questo libro non è “fino a che punto lo stato sia riuscito a domare i gangster” ma “fino a che punto i valori e le pratiche dei vory abbiano finito per plasmare la Russia moderna”.

 

Gli inzi: la criminalità tatuata

Il saggio inizia con la descrizione della società russa di metà Ottocento. La subcultura vory risale infatti all’epoca zarista ma viene radicalmente rimodellata nei gulag staliniani. Con la dissoluzione dell’impero sovietico, la criminalità russa è costretta di nuovo a re-inventarsi mescolandosi e confondendosi con la nuova élite che comanda il Paese. È in questa stagione che scompaiono i famosi tatuaggi che a partire dagli anni Trenta avevano rappresentato il marchio distintivo del mondo criminale.

In primo luogo, i criminali adottarono un rifiuto intransigente e ostinato del mondo legale, tatuandosi in maniera visibile quale drammatico gesto di sfida. Avevano la loro lingua, i loro costumi, la loro autorità. Questo era il cosiddetto vor v zakone, il ‘ladro nel codice’ o, letteralmente, ‘ladro nella legge’ – ‘legge’ era riferita alla loro, non a quella del resto della società”.

I tatuaggi – come ricorda Galeotti nell’introduzione, citando un episodio accaduto nel 1974 a Strelna nella regione dell’allora Leningrado, quando sulla costa fu ritrovato un corpo senza vita corroso dal mare – testimoniavano l’appartenenza al mondo criminale e al contempo rappresentavano una sorta di CV. Nel caso specifico di Strelna, attraverso la ‘lettura’ dei tatuaggi, fu possibile dare un nome a quell’uomo e ricostruire la sua carriera criminale.

Ma torniamo per un attimo ai primi del Novecento per riflettere su un dato ambientale che rende, già di per sé, ragione della futura ascesa dei vory v zakone in epoca sovietica prima con Lenin, poi con Stalin.

Il crimine organizzato russo emerge in una società dove lo stato è spesso assente, invisibile, corrotto e dove le risorse per le forze di polizia sono irrisorie se rapportate alla vastità dei territori dell’impero e alla sua popolazione. Nel 1900 la percentuale del budget statale per la polizia si attesta intorno al 6%, una cifra ben al di sotto degli standard europei dell’epoca, rispettivamente la metà di quella austriaca e francese e addirittura un quarto di quella della Prussia. A ciò si aggiungeva, circostanza nient’affatto trascurabile, l’elevato livello di corruzione delle forze dell’ordine.

Il processo di industrializzazione e di urbanizzazione di fine Ottocento – nell’arco di 30 anni dal 1867 al 1897 la popolazione di San Pietroburgo e Mosca triplica – porta alla formazione, nelle periferie delle grandi città, di gang di strada come Roshcha e Gaida a San Pietroburgo. In questo periodo il quartiere moscovita di Khitrovka, grazie anche ai racconti popolari di Mikhail Zotov, si guadagna la fama di luogo di ubriaconi, drogati, prostitute da venti copechi e assassini. Agli inizi del Novecento le gang dei principali centri urbani danno vita al primo embrione di quello che sarebbe diventato, di lì a poco, il vorovskoi mir.

 

Da Lenin a Stalin

È interessante notare come la Rivoluzione d’Ottobre e gli avvenimenti immediatamente successivi ad essa contribuiranno a far prosperare la nascente mafia. La Guerra Civile Russa (1918-1922) fu il momento formativo per i bolscevichi ma anche la loro tragedia. Gli impulsi riformisti e l’idealismo vennero sacrificati in nome della sopravvivenza e mentre i Rossi vincevano la guerra, contemporaneamente perdevano la loro anima. Ciò che rimase fu un regime brutale, violento che favorì la rapida ascesa di gente cinica e senza ideali che andò a ingrossare le fila dei bolscevichi.

In tal senso l’affermazione, apparentemente provocatoria rivolta dal boss moscovita Otari Kvantrishvili nel 1994 a chi lo accusava di essere il capo della mafia, secondo cui “il vero padrino non era lui ma Lenin che aveva organizzato la mafia e fondato uno stato criminale”, non è affatto un’iperbole. Galeotti sostiene che Lenin, “identificando i ricchi e i piccoli criminali come i veri nemici del socialismo, stava implicitamente escludendo il criminale ‘non piccolo’, rendendolo un potenziale alleato”. Il compromesso fatto negli anni della guerra civile finirà per plasmare il resto dell’epoca sovietica. Nel 1918 il livello di rapine e omicidi era da dieci a quindici volte superiore a quello degli anni precedenti il conflitto. Lo stesso Lenin non era immune da comportamenti che trasgredivano la legge.

Abbiamo già sottolineato come, con l’inizio dell’epoca sovietica, i tatuaggi diventano il tratto distintivo del vorovskoi mir. Dalla fine degli anni Venti fino al 1953, anno della scomparsa del dittatore georgiano, Stalin è l’icona più tatuata dai vory. In alcuni casi era un tatuaggio ironico, ma molto spesso – scrive Galeotti – “si trattava stranamente di un giusto tributo a un uomo che era, per certi versi, il loro vero progenitore”.

“Nel 1918, Julius Martov, un leader dissidente, sostenne che una figura chiave dei pirati del Mar Nero era un certo Iosif Dzhugashvili. [...] In confronto a molti dei suoi colleghi capi bolscevichi, Stalin non era un prodotto dell'università o del salone. Frequentava fuorilegge e gangster e, da rivoluzionario, fu una figura chiave nella campagna degli "espropri" - violente rapine in banca - per raccogliere fondi per il partito bolscevico”.

 

L'arcipelago Gulag

Non sorprende affatto che l’autentico salto di qualità della criminalità russa avvenga in epoca staliniana grazie alla politica concentrazionaria promossa dal dittatore caucasico. All’interno dei Gulag sono rinchiusi dissidenti politici e veri e propri criminali. Inoltre questo sistema di semi-schiavitù si interfaccia con il resto della società sovietica. L’immagine del Gulag, come sorta di Paese invisibile, quasi impercettibile che coesiste spazialmente con l’Unione Sovietica, tramandataci da Alexander Solzhenitsyn nel suo Arcipelago Gulag , ci induce a pensare che esistesse una netta linea di demarcazione tra questi due mondi. Ma non era così. Galeotti spiega che c’erano ovviamente campi con muri, recinzioni, fili spinati e torri di controllo ma esistevano anche campi virtualmente aperti in luoghi più remoti e campi di lavoro all’interno delle città. I campi di lavoro ideati da Stalin favorivano dunque un certo grado di osmosi o se preferite di contaminazione.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale il sistema dei Gulag fu caratterizzato da lotte tra criminali tradizionali – ossia quelli che si rifiutavano di collaborare con lo stato – e traditori, ossia quelli disposti a scendere a compromessi con la dirigenza sovietica. È in questo periodo che il lessico criminale del vorovskoi mir si arricchisce di nuovi termini. La parola suka (letteralmente puttana) indica precisamente quel criminale che collabora con le autorità. La sfida di Stalin in questi anni è gestire al meglio l’elevato numero di condannati. Nonostante la motivazione principale delle purghe e delle carcerazioni di massa fosse di carattere politico, lo stato cercava di sfruttare questa enorme forza di lavoro in regime di semischiavitù per scopi economici quali la ricostruzione postbellica.

Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta assistiamo, all’interno dei Gulag, alla suchya voina, ossia alla guerra tra suki e blatnye (i criminali tradizionali, detti anche urka). È un conflitto per la supremazia all’interno dei campi di lavoro ma anche per l’anima del vorovskoi mir, un conflitto che le autorità inizialmente incoraggiano salvo poi pentirsene amaramente. “Per esempio, nel campo minerario dell'Intalag, 150 suki, equipaggiati con pale, asce e altre armi perfettamente funzionanti, furono deliberatamente messi in mezzo a 100 blatnye. Il risultato fu un massacro: dieci dei tradizionalisti si arresero, gli altri furono uccisi. Lo scopo era chiaramente quello di distruggere i blatnye, o almeno costringerli ad abbandonare il loro codice e la loro resistenza”.

Episodi simili a quello di Intalag si verificano in altri campi. Il risultato finale è la vittoria dei collaborazionisti, principalmente perché i suki sono spalleggiati dal regime. Le autorità trovano sempre il modo di aiutarli, per esempio concedendo loro ruoli chiave all’interno del Gulag come quello di cuoco e barbiere. Materialmente significava dotarli di coltelli e rasoi, strumenti utili non solo in barbieria o in cucina!

La vittoria dei suki muta i codici comportamentali del mondo criminale. La collaborazione con lo Stato, tabù per i vory della vecchia generazione, viene progressivamente sdoganata specie se funzionale all’interesse della malavita. A partire dagli Anni Sessanta, grazie al disgelo khrushcheviano, i vory sono sempre più al di fuori dei campi di lavoro, a capo di gang che operano nelle città. Nel decennio successivo anche lo slang del vorovskoi mir non è più prerogativa esclusiva dei vory v zakone e si mescola con quello del mondo ‘ufficiale’.

 

La dissoluzione sovietica

La stagnazione economica nell’era di Leonid Brezhnev (1964 – 1982), caratterizzata dalla cronica assenza di beni di prima necessità, comporta che lo Stato sia sempre più dipendente dal mercato nero per cercare di soddisfare i bisogni dei propri cittadini. Il famoso scandalo del cotone in Uzbekistan, che vede coinvolti il boss locale del partito Sharaf Rashidov, il KGB locale e alcuni papaveri del regime a Mosca, è per certi versi paradigmatico del patologico livello di corruzione cui era giunta la società sovietica. Gran parte dell’economia sommersa, su cui il regime fa affidamento per sopravvivere, è in mano a funzionari di partito corrotti legati a ‘imprenditori’ del mercato nero e alla mafia.

È in questo contesto di dissoluzione politico-economica che si trova ad operare Mikhail Gorbachev a metà Anni Ottanta, nel vano tentativo di riformare un regime già al collasso. La sorta di NEP voluta dal Segretario Generale dell’URSS favorirà, paradossalmente, l’ascesa su scala ancor più vasta del mondo criminale. Tre sono – a detta di Galeotti – i fattori cruciali che in questa fase storica rivoluzionano il crimine organizzato.

Il primo è la campagna sull’alcolismo che, analogamente a quanto accaduto negli Stati Uniti ai tempi del proibizionismo, fa proliferare la produzione e la vendita illegale degli alcolici consentendo lauti profitti agli imprenditori del mercato nero e alla mafia.

Il secondo è la politica di liberalizzazione di alcuni settori dell’economia con la creazione di business privati – le cosiddette cooperative – che riforniscono i gangster “di nuove vittime da taglieggiare e di nuove opportunità per riciclare tutto il denaro realizzato con la vendita illegale di alcolici”.

Infine, il collasso dell’autorità statale che avviene contestualmente all’acquisizione di denaro e di risorse coercitive, ‘money and muscle’ , da parte dei malavitosi fa sì che mutino i rapporti di forza con i funzionari di partito. Semplificando potremmo dire che sono i vory – che molti cittadini sovietici conoscono per la prima volta negli anni della perestroika come sorta di broker capaci di procacciare alcol, sigarette e altri beni/servizi – a comandare sui boss di partito.

Negli Anni Novanta la presidenza Eltsin fornisce, suo malgrado, una sorta di perfetta incubatrice al crimine organizzato. L’anarchia politico-economica e la crisi sociale che caratterizzano questo periodo portano al consolidamento dei baroni criminali dell’epoca di Gorbachev.

Nei primi anni 2000 con l’arrivo al Cremlino di Putin molti dei bandity, usciti vincenti dalle guerre di mafia tra le diverse gang, si trasformano in biznismeny. I vory hanno diversificato i loro interessi e colonizzato un’ampia fetta dell’élite russa. La relazione tra Stato, crimine organizzato a livello locale e nazionale è complessa, variegata, sovente cooperativa.

 

Nazionalizzazione e internazionalizzazione

Il mondo dei vory, con i rituali da clan e i tatuaggi sgargianti, diventa obsoleto. Sopravvivono solo il nome e la mitologia ad esso associata, cambiano il modo di agire e i codici comportamentali. La mafia russa, divisa su base etnica (ceceni, georgiani, armeni etc), si internazionalizza. Il processo di internazionalizzazione non è sempre il frutto di una strategia pianificata ma sovente il risultato di opportunità che criminali, fuggiti dall’ex URSS per timore di venire uccisi da gang rivali o di essere catturati, colgono nei paesi in cui si rifugiano.

L’obiettivo dichiarato da Putin di restaurare la ‘sovranità russa’ e di fare tornare la Russia grande – sottolinea Galeotti – avviene anche attraverso la ‘nazionalizzazione’, per così dire, del mondo illegale. Alcuni membri della malavita vengono introdotti nell’élite dello Stato o sotto forma di imprenditori avtoritet (uomo d’affari-gangster) o di gangster trasformati in politici. Ma – precisa l’autore – è ben chiaro che questa sorta di licenza è contingente e legata al rispetto delle regole stabilite dalla verticale del potere.

Interessante anche la lettura offerta dallo studioso sul ruolo della mafia nel conflitto tra Russia e Ucraina. A detta di Galeotti l’annessione della Crimea è il primo caso nella storia mondiale in cui un gruppo di gangster lavora direttamente per uno Stato. In precedenza, in altre guerre, il ruolo del malavitoso si limitava a quello di semplice collaboratore, qui i gangster sono combattenti integrati nelle forze occupanti. L’autore si riferisce non agli “uomini verdi” (truppe russe regolari) ma agli uomini di Sergei Aksyonov, attuale premier della Crimea, un passato da vor.

Analogamente il conflitto in Donbas può essere letto come una guerra con un sostanziale coinvolgimento della mafia locale, la stessa che aveva sostenuto l’ascesa politica del tandem Akhmetov-Yanukovych nell’Ucraina degli anni 2000. Galeotti, che ha approfondito l’aspetto criminale del conflitto, sostiene che nel dicembre 2014, quando i russi avevano già separato Luhansk e Donetsk dal resto dell’Ucraina, dando vita a LNR e DNR, i vertici criminali del Donbas hanno deciso di sfruttare in pieno le opportunità offerte da questo nuovo scenario.

In assenza di controlli da parte dello stato centrale di Kyiv la produzione illegale di alcol, sigarette e il commercio di armi e droga tra la Russia, l’Ucraina e l’Europa è notevolmente incrementato nonostante il conflitto armato. Lo studioso fa inoltre notare come i nomi degli stessi ‘leader’ delle due repubbliche separatiste di LNR e DNR, ‘Motorola’, ‘Batman’, ‘Strelkov’(cecchino), siano chiari omaggi alla cultura criminale dei vory v zakone.