Colonna clown

Sul viale del tramonto della Seconda Repubblica si è invocato, come un mantra ossessivo, "il popolo". Il popolo vuole, il popolo decide, il popolo sovrano, il popolo come taumaturgo. L’investitura popolare è stata considerata alla stregua dell'incoronazione dell'imperatore del Sacro Romano Impero dal Papa: una legittimazione divina, fonte di potere quasi metafisico e sovrannaturale.

Essere in disaccordo col popolo non è più l’espressione di un legittimo dissenso, ma un pericoloso atto eversivo della volontà popolareIl concetto di popolo è sempre più svincolato da quella che è stata la sua più nobile connotazione sin dai tempi antichi: Senatus Populusque Romanus, per i Romani, indicava il popolo come rappresentante, insieme al Senato, del potere della  Repubblica. La giustizia, nel nostro Paese, è amministrata “in nome del popolo italiano” e la sovranità, secondo l’art.1, comma 2, della Costituzione, appartiene al popolo. Attaulmente invece si sta assistendo ad una distorsione in chiave demagogica, del termine.

Questa però non è una novità degli ultimi tempi: dapprima "il popolo" è stato patrimonio dell'ultimo governo Berlusconi per mettere in guardia gli Italiani dai rischi di un governo tecnico – usando l’aggettivo come uno spauracchio e una minaccia – non votato, appunto, dal popolo, facendo un’indebita equiparazione tra non votato e non voluto, quindi in contrapposizione con la sacra volontà popolare (in effetti i loden di Monti hanno soddisfatto molto meno il voyeurismo del nostro popolo di esteti rispetto ai costumi pornocarnevaleschi delle cene eleganti di Arcore).

Ma Berlusconi, che non si può certo accusare di scarsa intelligenza e lungimiranza, ha da tempo lasciato il monopolio del popolo, concetto trito che ha ormai stancato l’elettore-consumatore sempre alla caccia di novità politiche, alla Lega, che lo ha fatto proprio (acquistandolo di seconda mano nei saldi di fine stagione di Forza Italia), consentendo così a Salvini di inserirlo nei discorsi a manciate come le virgole, i due punti e i punti e virgola della celebre lettera che Totò detta a Peppino in Totò, Peppino e la malafemmina: “ma sì, fai vedere che abbondiamo”.
In effetti la parola è di grande effetto, e fa sì che si determini un coinvolgimento notevole delle masse: si rispecchiano nel popolo, si fondono e confondono al suo interno e si sentono forti in quanto popolo sovrano.

Non dimentichiamo però che il popolo, inteso come folla, coacervo indistinto di persone in cui ciascuna abdica alla propria individualità per farla confluire in una unica, spersonalizzata e disumanizzata, è quell'entità oscura e irragionevole dell’assalto al forno di Milano dei Promessi Sposi, la folla sorda e cieca delle adunate naziste che osannava il Führer come il nuovo Messia, la massa violenta che ha scatenato periodicamente i pogrom in est Europa.

Nel popolo l’io individuale confluisce e si annulla in un io comune semplicistico e suggestionabile, all’interno del quale l’individuo massificato smette di ragionare con la testa, inizia a farlo con la pancia.

"La gente" è invece la versione pret-à-porter del popolo a uso e consumo dell'era della post-verità (intesa come epoca dominata da un'antipolitica della comunicazione), ne è la declinazione in chiave più semplicistica e rappresenta il suo lato deteriore. "La gente" è ancor più irrazionale del popolo, ancora più massa, più sfocata, ed è il motivo per cui è molto pericoloso rivolgersi ai suoi istinti più bassi, fomentarne la violenza facendo leva sulle paure più recondite, compattarne la volontà attraverso l’incitamento all’odio sociale e lo spettro di una politica “contro la gente”.

A ben vedere, nell’attuale Medioevo politico i tecnici sono dipinti come i nemici del popolo (basti pensare alle tinte fosche usate per evocare un governo tecnico) e i politici si sono autoproclamati come gli unici depositari della sacra volontà della gente e del popolo, salvo però fare dell'antipolitica una bandiera e renderla l’essenza stessa della loro sopravvivenza, creando così un cortocircuito incoerente e preoccupante. Se "il popolo" ragiona con la pancia, "la gente" invece vive di suggestioni, che nell'epoca della post-verità – in cui nulla di ciò che si è detto ieri vale anche per l'oggi e certamente non esisterà più domani – vuol dire farsi dominare dal piazzista più pervicace e dall'affabulatore più persuasivo.

L'antipolitica considera il popolo come popol bove, utile mezzo per il raggiungimento e la conservazione del potere, e guarda alla gente come alla sua versione più rozza e spersonalizzata, facilona, cui si può dire qualunque cosa e negarla poco dopo facendo apparire chi sottolinea queste incoerenze come un propagandista dei poteri forti e delle agenzie di rating (ricordiamo, meno di ottant’anni fa, i “sabotatori del grande stato fascista” e il “disfattismo delle demoplutocrazie occidentali alleatesi contro l’Italia”?, Allora c’era la perfida Albione, adesso il nemico è la perfida Frau Merkel) gente che crede oggi a pseudo-europeisti novelli, improvvisati e fasulli che sino a ieri volevano far uscire l’Italia dalla “trappola dell’euro” e scioglierla dal giogo germanico: come ebbe a dire Hitler, “le masse sono abbagliate più facilmente da una grande bugia che da una piccola”: ecco perché conviene spararle grosse.

I populisti parlano al popolo, i demagoghi si rivolgono alla gente, passiva consumatrice di un prodotto politico che, privo del consenso, non potrebbe esistere, nutrendola di lusinghe (leggere “reddito di cittadinanza”, etc.), slogan e bugie per autoconservarsi, ammansendola o incitandola consapevolmente (leggere “impeachment per Mattarella”) salvo poi fingere spavento per i moti di piazza e richiamare la folla all’ordine assumendosi i meriti della ritrovata tranquillità esattamente come i domatori.

La politica invece – quella vera – si rivolge alle persone come cittadini: se il popolo è la forma consapevole della gente, i cittadini sono l'evoluzione del popolo: hanno coscienza, volontà individuale, conoscono le istituzioni e le rispettano (distinguendo l'uomo, che può sbagliare, dall'istituzione che rappresenta, nella quale comunque credono) considerando la res publica patrimonio comune da rispettare, proteggere e servire con senso dello Stato.

Il populismo e il gentismo hanno destrutturato la coscienza civica facendola regredire ad una forma degenerata di partecipazione antipolitica, rabbiosa, irrazionale e irrispettosa dei toni dell'agone politico e dei ruoli istituzionali e lo spettacolo di cui stanno dando prova in questi giorni i partiti populisti sovranisti altro non è se non la versione 3.0 del panem et circenses di Giovenale.

Di circo ne abbiamo avuto abbastanza. Forse sarebbe meglio se ridiventassimo cittadini.