conte di maio salvini grande

Giuseppe Conte non è un populista: è un demagogo… con la pochette (il che gli dà quella credibilità che piazzisti e venditori porta-a-porta di sub-religioni settarie cercano di avere indossando, appunto, giacca e cravatta). Il populismo è – nella sua accezione post-moderna – un'ideologia semplicistica e manichea che colloca il popolo da un lato, nella colonna dei "buoni", e le élite dall'altro, in quella dei "cattivi" (c'è un che d'infantilistico: l'infantilizzazione delle masse è una pre-condizione necessaria perché la retorica populista attecchisca).

Stando a questa ideologia "minimal", nel Palazzo uno-qualunque, per l'appunto quisque de populo, farebbe meglio di politici di professione, burocrati e tecnocrati: il qualunquismo è infatti il pilastro unico del populismo, tant'è che chi avocasse a sé la conduzione del "popolo" – antiscientificamente inteso come entità monolitica – dovrebbe auto-legittimarsi quale uno-di-voi (Grillo, Salvini… poco importa il conto in banca tutt'altro che popolano: popolani basta apparire, magari facendo largo uso di turpiloquio o indossando felpe dozzinali e strafogandosi di junk food).

Conte, appena insediatosi a Palazzo Chigi, si auto-proclamò robesperrianamente "avvocato del popolo", così archiviando il qualunquismo grillino, visto che un avvocato, foss'anche un azzeccagarbugli, non è per definizione uno-qualunque… Potrebbe tuttavia essere un cettolaqualunque, e cioè, come si diceva, un demagogo: a rendere Conte tale è la retorica delle sovra-promesse con cui magnetizza consenso sin da quando si presentò in Parlamento, sconosciuto ai più, a chiedere la fiducia per il Conte 1.

Faremo questo, faremo quest'altro, dieci miliardi di qua, venti di là eccetera: nulla che contempli la scarsità delle risorse, neanche tramite semplici omissioni o altri artifici retorici (per intenderci: un coefficiente di demagogia è insito del discorso pubblico in sé, foss'anche lo storytelling del più moderato fra i leader… ma il demagogo propriamente detto è colui che si spinge abbondantemente oltre la soglia del credibile). È propriamente questa la cifra che ha scelto anche nella gestione della crisi pandemica e dopo-pandemica: retorica delle sovra-promesse confezionata con un po' di melassa da romanzo d'appendice, tra abbracci e potenze di fuoco.

Populista (e demagogico) resta tuttavia il partito di cui si è servito come taxi per Palazzo Chigi; populista e talvolta demagogica è la destra parlamentare, radicalizzatasi – ma di un radicalismo non più antieuropeista: non conviene più – e cioè populistizzatasi al punto da portare il proprio "popolo" in piazza contro l'élite governativa pro tempore, per di più in occasione di una ricorrenza che in genere è stata in grado di avvolgere crepe e linee di frattura dentro il tricolore.

Iper-populista è poi la destra extraparlamentare ri-aggregatasi attorno a una figura folklorisitica e situazionista, un fenomeno al momento quantitativamente irrilevante che ha tuttavia ripescato quei leitmotiv del proto-fascismo italianisticamente inteso – complottismo, nazionalismo, anti-elitismo – che, come la storia nazionale anche più recente ci insegna, se ripetuti come mantra per diversi anni, magari con la complicità dei media e della giusta congiunzione astrale, finiscono per aggregare maggioranze elettorali (solo relative, si spera…) sufficienti per ottenere il tanto ambito biglietto d'ingresso per il Parlamento se non perfino per il governo.

Queste due degenerazioni patologiche tipiche delle democrazie immature o, appunto, malate, affliggono come s'è visto maggioranza e opposizione, mentre un ipotetico fronte per così dire non latino-americano è politicamente e istituzionalmente rarefatto: da un lato c'è la destra (post-)berlusconiana con un piede qua e uno là; dall'altro la sinistra non grillizzata – quella grillizzata lo è a tal punto da dimostrarsi spesso più grillina di Grillo – è taciturna e incerta e a volte schizofrenica e velleitaria; al centro, infine, c'è il segmento appunto centrista dello spettro politico-partitico, che resta per l'intanto parcellizzato, forse in attesa di un messia-federatore.

"Andrà tutto bene" è un esercizio di ottimismo auto-motivazionale sacrosanto e forse necessario, anche se già inflazionato e invecchiato; ma vista la struttura della domanda e dell'offerta politiche del Belpaese, la tentazione di cedere al pessimismo della ragione (che è altra cosa dallo sfascismo) è forte, così come altrettanto forte è la speranza di affidarsi, per la ricostruzione dopo-pandemica, a fattori come al solito "esogeni", extranazionali – nella fattispecie ci si riferisce al "fattore sovranazionale": visto lo stato confusionale e il trend isolazionista del'ex Stato-leader democratico-liberale del mondo, cioè gli USA, non resta per l'intanto che osservare speranzosi l'accelerazione del processo di europeizzazione, sperando che i bluff euroscettici di governo e opposizione restino per l'appunto bluff o al più strategie di negoziazione.

@AlexMinissale