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Massimo Gramellini in un recente editoriale, ci parla di suo nonno e di come sia l’ignoranza e l’invidia del successo (che evidentemente assume sia appannaggio di chi ha studiato) il tratto caratterizzante dell’elettorato di Trump e l’elemento alla base del suo successo. 

La quantità di non sequitur che l’editorialista della Stampa è riuscito ad infilare poche righe di commento è ragguardevole, in ogni caso il risultato più eclatante che riesce a conseguire è il moto di empatia che riesce a suscitare nei confronti dell’oggetto delle sue critiche: io non mi sento ignorante, né escluso, né vittima della globalizzazione eppure le cose che scrive mi fanno venire una gran voglia di diventare un sostenitore di Trump.

Suo nonno si spezzava la schiena, ma oggi non si vergognerebbe di aver studiato poco. Perché una persona di quell’epoca si sarebbe dovuto vergognare di non aver studiato? Qual è il nesso con il non vergognarsi oggi? Su che cosa basa il presunto complesso di inferiorità che attribuisce a chi non ha studiato?

Ma quando scrive “non considerando più la cultura uno strumento di crescita economica e sociale, ma il segnale distintivo di una camarilla arrogante di privilegiati” si rende conto di essere la personificazione di questo tipo di prospettiva? E ancora: “l’ignorante detesta chi ha studiato perché detesta una società che non consente più a suo figlio di farlo, obbligandolo a contrarre debiti spaventosi per strappare un «foglio di carta» che nella maggiore parte dei casi non garantisce il miglioramento delle sue condizioni, ma si traduce in una mortificazione ulteriore di stipendi bassi e lavori precari.”

Quindi il problema è l’ignoranza, ma anche no perché in verità è il costo degli studi (e quindi il non poterseli permettere genera invidia), però a ben guardare anche chi prende il pezzo di carta poi non migliora le condizioni di partenza… quindi cosa dovrebbero invidiare questi ignoranti?

Ma la summa della totale inconsistenza degli argomenti e della confusione nell’esposizione è data dal passaggio “perché è stata la finanza, non la politica e tantomeno la cultura, a costruire questo mondo di sperequazioni odiose.” Indulgere ulteriormente nell’analisi del testo sarebbe noioso e inutile, Gramellini e gli altri “intellettuali di regime” non hanno interesse a guardare cosa succede nella realtà o a provare a comprenderla perché non ne hanno bisogno: la loro cultura gli garantisce lo status che ben inquadrava il Belli ne li soprani der monno vecchio e che Alberto Sordi ha voluto riprendere col personaggio del Marchese del Grillo.

SI tratta di un’arroganza profonda e sprezzante nei confronti del popolo bue che dovrebbe seguire docile le indicazione delle élite, che dovrebbe vergognarsi anche se non ha potuto studiare per necessità (perché il fatto che il lavoro nobiliti l’uomo può capirlo solo chi sa cosa vuol dire lavorare), che tutto sommato anche se studia rimarrà al pianterreno della società, perché ai piani alti l’accesso è a invito e che, se per caso osa protestare, deve essere bollato come miope e in ogni caso fuorviato perché è tutta colpa del neoliberismo e della turbofinanza.

Spiace per le dissonanze cognitive di questi intellettuali, ma è anche contro di loro e contro quello che rappresentano che la maggioranza degli elettori vota. L’ignoranza non è certo la spiegazione determinante del fenomeno Trump e può essere al massimo l’insulto con il quale veicolare il proprio disappunto verso chi non la pensa come la classe illuminata.

Piuttosto che ingiuriare chi ha votato per Trump e fantasticare di immaginarie e logicamente incoerenti invidie culturali, sarebbe forse il caso di fare un po' di autocritica e chiedersi quanto grande è il fallimento dei candidati e del sistema che è riuscito a perdere contro il più impresentabile dei candidati.