Inseguire i populisti sul terreno dell’odio? Non funziona
Marzo/aprile 2017 / Monografica
Le forze politiche 'regolari', di fronte ai movimenti 'di pancia' che cercano di scalzarle, solitamente reagiscono in tre modi: li minimizzano, cercano di escluderli dal gioco democratico, poi ne sposano le ragioni, dopo averle denigrate per anni. Gli esempi di Merkel e Macron, tuttavia, dimostrano che la strategia vincente non è arrendersi allo spararle grosse, ma mantenere una linea coerente.
“Parlare con i populisti non equivale a esprimersi come loro. È possibile prendere seriamente in considerazione i problemi che essi evidenziano senza accettare il loro modo di dipingerli”. Cari politici “tradizionali” che avete a che fare con i nuovi anti-politici di professione, tenete a mente questa regola in coda al saggio “Che cos’è il populismo?” (Enea, 2016) del politologo tedesco Jan-Werner Muller.
Non è che l’ultimo, in realtà, di una triade di clamorosi errori, concatenati tra loro come tessere del domino, che le forze politiche fanno regolarmente, quando hanno a che fare con un parvenu che le spara grosse, solitamente indicando un capro espiatorio abbastanza efficace da farne l’origine di tutti i mali, sia esso “Roma Ladrona” o l’Unione Sovietica Europea, la finanza internazionale o la marea umana di profughi e migranti.
Il primo errore consiste nel minimizzare la minaccia, o peggio nel ridicolizzarla. Il caso di scuola è, ovviamente, rappresentato da Piero Fassino e dal suo celeberrimo “Grillo? Fondi un partito e vediamo quanti voti prende”, quando al comico genovese fu impedito di candidarsi alle primarie per eleggere il segretario del Partito Democratico che sarebbe succeduto a Veltroni. Il resto, dal Vaffanculo Day ai sondaggi di questi giorni che danno stabilmente i Cinque Stelle in testa ai consensi, è Storia.
Il secondo errore è quello di chi decide di escludere queste forze dal gioco democratico, alimentandone così la paranoia e aiutandole a costruirsi una narrazione ancora più credibile per i propri elettori. È l’errore che ha permesso alla Lega Nord di scendere dalle valli bergamasche, a Berlusconi di durare vent’anni, al Movimento Cinque Stelle di radicarsi ovunque. Basta una parolina magica - scegliete voi se “inquietante”, “pericolo” o “eversivo” - e il gioco è fatto.
Il terzo errore, invece, è quello di chi, dopo aver passato anni a combatterle, si autoconvince delle ragioni avversarie, di non aver ascoltato abbastanza la ”pancia del Paese“, di non essere stato capace di intercettare il malcontento. Si autoconvince, insomma, che per sterilizzare l’odio sociale basti assecondarlo: “Hai ragione, caro. Però ora troviamo una soluzione più ragionevole al tuo problema”.
È una prassi, questa, che trova a sinistra i suoi maggiori interpreti. Massimo D’Alema, tanto per citare colui che di questa conversione sulla via del nemico ha fatto un’arte, che dopo anni a bollare la Lega Nord come forza razzista e qualunquista, finì per definirla “una costola della sinistra”. Così come oggi, non pago, afferma in un’intervista al Corriere della Sera che “anziché deprecare il populismo cercando di delegittimare i nostri competitori politici, dovremmo cercare di metterci in sintonia con il popolo”.
A dispetto della conclamata antipatia politica che intercorre tra loro, anche Matteo Renzi è ottimo interprete della linea dalemiana del “se non puoi batterli, imitali”. Caso di scuola, il celeberrimo manifesto “Cara Italia, vuoi diminuire il numero dei politici?” che fu usato per la campagna referendaria a sostegno della riforma costituzionale. La strategia era chiara: togliere un argomento agli avversari, seminando dubbi e panico tra i loro elettori. Risultato? Un plebiscito per il No.
Già, perché la tenacia nel provare a invadere il campo altrui è inversamente proporzionale al successo di tali iniziative: “Voi scuotete l’albero, noi raccogliamo le nespole”, disse un autorevole esponente leghista ad un altrettanto autorevole esponente democratico dopo le elezioni del 2008, quelle perse rovinosamente da un Walter Veltroni insolitamente condiscendente con le ragioni del centrodestra su tasse e sicurezza. Lo stesso potrebbero dire Boris Johnson e Nigel Farage a David Cameron, che pensò di farli fuori concedendo loro il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Europa. O Geert Wilders al premier olandese Mark Rutte, che più gioca a fare lo xenofobo – “i nostri valori non vi piacciono? Andatevene!”, ha dichiarato solo un paio di mesi fa - più fa guadagnare consensi al suo avversario di estrema destra.
Non vi bastassero questi quattro esempi, considerate anche quelli di Angela Merkel ed Emmanuel Macron. La prima è riuscita a frenare l’avanzata, che pareva inarrestabile, di Alternative für Deutschland e delle sue battaglie contro l’accoglienza ai profughi, ribadendo semplicemente le ragioni ideologiche e pragmatiche della sua politica per l’apertura. Il secondo si è accreditato come il più efficace sfidante di Marine Le Pen, assumendo una posizione ultra-europeista e anti-sciovinista.
A volte non serve cambiare idea, e nemmeno - parafrasando Brecht - cambiare il popolo. A volte, più spesso di quanto si creda, è molto più semplice convincerlo.
INDICE Marzo/Aprile 2017
Editoriale
Monografica
- L'odio di ieri e l'odio di oggi
- La lingua e le parole dell'odio, ora come allora
- Torna di moda il ‘capro espiatorio’ per non fare i conti con la realtà
- Inseguire i populisti sul terreno dell’odio? Non funziona
- Fake news e post-truth. Come ne usciamo senza farci male?
- Quanto dura una bufala? Un caso di scuola
- Bufale al potere - 1. Il senso di Trump per le bugie
- Bufale al potere - 2. La guerra ibrida del Cremlino
Istituzioni ed economia
- Il 4 dicembre non è stata la nostra Brexit
- Britannici e ucraini nell'Unione. Le 'due velocità' utili all'Europa
Diritto e libertà
- La morte buona, tra la politica e i tribunali
- L’Europa dei diritti contro la tirannia delle maggioranze
- I punti critici del Consultellum. Non spetta alla Corte fare buone leggi elettorali