Giustizia e Coronavirus. Nel nome del 'capo-ufficio'
Diritto e libertà
Mi sembra che nessuno si sia accorto di ciò che si è fatto nei giorni scorsi in ambito di amministrazione della giustizia. Meglio: di quel che suppone e implica ciò che si è fatto. È intervenuto - questo sì - un comunicato dell’Unione delle Camere Penali, con il quale si reclama che “La politica non abdichi ancora una volta alle proprie prerogative costituzionali, affidandole alla Magistratura”: ma è la denuncia di una rappresentanza particolare, per quanto qualificata, e occorrerebbe ben altro. Perché quel che è successo, quel che si è fatto, davvero non ha precedenti.
Il decreto marzolino in argomento di giustizia, infatti, affida “ai capi degli uffici giudiziari” l’organizzazione delle misure necessarie a garantire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal ministero della Salute, in particolare per “evitare assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario”. Il che sarebbe pressoché innocuo se si trattasse di appendere un cartello con su scritto che in una stanza si entra due per volta o che in ascensore ci vanno solo gli invalidi.
Ma non si tratta di questo, perché le norme approvate dispongono che le misure organizzative affidate al potere di disciplina dei “capi degli uffici” riguardano anche “la trattazione degli affari giudiziari”. E infatti a quei capi è dato di disporre circa i tempi e i modi dei processi, che detto così sembra nullo e ovvio ma esplorato bene significa che la cura dei diritti delle persone davanti alla giustizia, quel che possono fare, e come e quando, non dipende più da una legge buona o cattiva ma dalle deliberazioni capricciose di un capufficio.
Se io metto in legge che "i negri non possono entrare in un negozio" faccio una schifezza: ma se io metto in legge che Tizio decide se il negro può entrare o no faccio molto peggio. Ed evidentemente questa differenza è estranea alle sensibilità di chi ha scritto le norme che attribuiscono ai capi degli uffici giudiziari il potere di disbrigare “come viene viene” il trattamento dei diritti delle persone in ambito giudiziario. Perché di questo stiamo discutendo: possono disporre che accedano agli uffici “le persone che debbono svolgervi attività urgenti” (e chi decide quando vi è urgenza? loro; in base a quali criteri? i loro criteri, ovviamente); possono adottare “linee vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze” (anche per la “trattazione”: e non è dunque solo questione di calendario, sempre che questo non sia già fondamentale per l’esercizio e la protezione dei diritti delle parti); ancora, possono decidere (e senza possibilità di appello, si badi) per quali procedimenti “la ritardata trattazione può produrre grave pregiudizio alle parti”: e si dica se una cosa tanto delicata, qual è l’aspettativa di giustizia in una situazione urgente, può essere rimessa all’arbitrio di un funzionario che decide inappellabilmente sulla base di quella previsione del tutto generica.
Sono solo alcuni esempi, e non serve essere giuristi per capire che non stiamo parlando di irrilevanti faccende tecniche: stiamo parlando del governo dei diritti delle persone, un governo che il governo appalta al capo-caseggiato in toga.
È mai possibile che nessuno si sia accorto di quanto tutto questo sia gravemente inedito? E più, come accennavo all’inizio: che nessuno si sia accorto della concezione sbrigliatamente illiberale che questa normativa suppone? E’ un profilo, uno dei tanti, per cui si segnala la tipicità italiana in ogni carambola di crisi. La Repubblica fondata sul commissariamento.