charles darwin

“La scienza non è democratica”. Da un po’ di tempo molte discussioni sul web su temi socialmente controversi in tema scientifico (OGM, sperimentazione animale, vaccini i più gettonati) vengono troncate con questa frase, che perlopiù serve a chiudere un battibecco tra un esperto (o una persona che sa di cosa parla) e chi propone una visione del tema in argomento non supportata dalle evidenze scientifiche.

È la stessa frase che è stata usata dall’ormai noto virologo Roberto Burioni per cassare tutti i commenti sotto un suo post nella sua pagina Facebook in cui spiegava che non è vero che i casi di meningite registrati negli ultimi tempi in Italia sono causati dall'arrivo di migranti dall'Africa, una bufala – o fake news come va di moda dire oggi - tirata fuori da Forza Nuova per la sua propaganda xenofoba.

Una presa di posizione molto applaudita, che ha trovato una cassa di risonanza anche nei media generalisti che hanno esaltato le gesta del medico eroe del web che mette a tacere gli ignoranti. Qualcuno ha storto un po’ il naso sui metodi comunicativi di Burioni – Antonio Scalari su Valigia Blu ha fatto un ottimo lavoro, ad esempio – ma molto spesso rimane nell’aria il consenso su quella frase - la scienza non è democratica - che, a parere di chi scrive, è piuttosto fuorviante.

Burioni l’ha spiegata in un successivo post: “Significa infatti che i dati scientifici non sono sottoposti a validazione elettorale: se anche il 99% del mondo votasse dicendo che due più due fa cinque, ancora continuerebbe a fare quattro. Poi ognuno è libero di dimostrare che non è vero; ma fino a quando non l'ha dimostrato, due più due fa quattro anche se molti non sono d'accordo”. Che è vero, ovviamente: l’esito di una ricerca scientifica non è soggetto al consenso popolare che ne accetta o rigetta per alzata di mano le conclusioni. Come è vero che oggi gli esperti di qualsiasi settore non godono più di solida fiducia, in parte per loro colpe storiche (quante volte hanno tradito quella fiducia confidando nell’ignoranza dei più?), in parte perché è più facile per tutti avere accesso a qualsiasi tipo di informazione, accrescendo così la percezione della propria conoscenza anche tra non esperti, e generando amenità varie, dalle scie chimiche al signoraggio, e infinite, quanto inutili, discussioni.

Solo che quel concetto è banale, forse accattivante, ma non per questo accettabile acriticamente, perché la democrazia non si esaurisce nel mettere ai voti qualcosa e trovare un consenso a maggioranza, democrazia non equivale a "elezioni". È un fenomeno ben più complesso fatto di regole, diritti, libertà, doveri, limiti e procedure, ma anche di confronto, discussione e informazione. E la scienza, oggi, non è solo validare un’ipotesi tra esperti dentro un sistema di regole più o meno definito, ma è anche fare i conti con l’impatto che i prodotti della scienza – che siano ‘mera’ conoscenza, nuove pratiche o tecnologia – hanno nella società e con le aspettative che la stessa società ha rispetto ad essa.

Ridurre la specificità del processo scientifico alla sua non democraticità è una pratica deleteria per diverse ragioni.

Perché il percorso di formazione della conoscenza scientifica ha al suo interno elementi che si riscontrano o di cui si auspica l’integrazione anche nei sistemi democratici (tra i tanti, Corbellini in "Scienza, quindi democrazia"): la necessaria pubblicità, la pluralità, i controlli, il rigore, l’accesso potenzialmente garantito a chiunque, la tendenza all’obiettività fattuale, meccanismi interni di correzione.

Perché non è del tutto vero che nella scienza non esista un meccanismo decisionale basato sulla maggioranza, né che non si faccia ricorso a tale meccanismo per supportare alcune assunzioni (ovviamente non dal nulla, ma sulla base di quanto emerge dalla letteratura scientifica): un esempio sono le consensus conference in cui si stabiliscono delle linee guida (ad esempio in materia di pratica clinica), un altro è il continuo richiamo alla “maggioranza degli scienziati esperti” quando si tratta di (di)mostrare all’esterno la fortissima influenza dell’attività antropica sui cambiamenti climatici.

Perché ‘la scienza è democratica’, almeno in Occidente, nella misura in cui è necessariamente parte di una realtà più ampia, interconnessa con le regole e i poteri democratici (che ne stabiliscono anche i limiti) e con le esigenze e le libertà della società e dei singoli individui su cui esercita e propaga i suoi effetti.

Perché tali effetti, infine, dipendono in molti casi dalla volontà e dall’azione delle singole persone e delle comunità più o meno ampie che in una società democratica devono non solo essere informate dei rischi e dei benefici (pensiamo alla sperimentazione clinica, o alle questioni di bioetica), ma anche avere piena contezza del percorso scientifico che vi sta alla base per poter effettuare le opportune valutazioni (ad esempio, verificare se esista o meno un conflitto d’interessi che infici l’affidabilità di tale percorso e, dunque, dei suoi risultati: pensiamo, ad esempio, alla medicalizzazione senza scrupoli di situazioni che non comportano in realtà né rischi particolari, né tantomeno patologie).

Usare come una clava, come viene fatto ormai troppo spesso, la frase “la scienza non è democratica” finisce per essere un sistema per svicolare – per carità, in molti casi in maniera umanamente comprensibile – dalle complicazioni di una fase importante e fondamentale della scienza, quella della sua corretta comunicazione nei diversi contesti (che non è un hobby).

Porta inoltre troppo vicini all’insinuare l’idea di “verità scientifica”, di dato incontrovertibile, fisso, preciso, immutabile, calato dall’alto da un essere superiore e per questo non soggetto a legittimo dubbio (anche quando è sbagliato, un dubbio può essere legittimo, no?), non contestabile se non da una élite ristretta di esperti, quando invece si dovrebbe abituare gli interlocutori non esperti a fare i conti con concetti lontani dalla verità, quali quelli di probabilità e incertezza, rischio, (sano) scetticismo, curiosità e confronto dialettico.