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Tra il 2000 e il 2014 la percentuale di laureati sulla popolazione nella fascia d’età 30-34 è passata dal 22 al 38% in Europa. E la Strategia 2020 dell’UE prevede che questa percentuale salga almeno fino al 40% nei prossimi cinque anni. Nello spazio di una generazione l’istruzione universitaria, prima privilegio di pochi, è diventata quasi un bene massa. Come cambia il suo valore in reazione alla democraticizzazione degli studi? È questa la domanda che ci siamo posti al Centre for European Policy Studies con alcuni colleghi (Miroslav Beblavý e Sophie Lehouelleur).

L’universalizzazione dell’istruzione secondaria offre alcune lezioni in merito. Durante il processo di espansione della scuola superiore si è fatta sempre più forte la differenza fra licei e istituti tecnici e professionali. In altre parole: la democraticizzazione degli studi secondari è andata di pari passo con il rigenerarsi della disuguaglianza sotto altre forme. Mentre prima la distinzione si era tra chi aveva un diploma e chi no, con l’espansione la distinzione è diventata tra chi andava al liceo e chi all’ITC.

I segnali indicano che lo stesso processo è in atto per gli studi universitari, al punto che ha sempre meno senso parlare di ritorni dall’investimento in istruzione universitaria in generale. Il nostro studio indica che, fatta la media uguale a 100, il valore medio atteso per una laurea in Italia, a cinque anni dal conseguimento del titolo può variare da +400 per le discipline mediche, a -15 per quelle scientifiche. 

È importante poi non ignorare la questione di genere: le donne laureatesi nel 2000 (e molto probabilmente anche quelle prima e quelle dopo) sono puntualmente svantaggiate nel mercato del lavoro rispetto agli uomini, fatta eccezione per le laureate nelle discipline umanistiche. Estremo è il caso delle lauree STEM (acronimo inglese che sta per scienze, tecnologia, ingegneria e matematica): a cinque anni dalla laurea le laureate non recuperano l’investimento fatto.

Ciò che rende diverso il nostro studio è aver incluso nel calcolo il costo degli studi universitari, che è basato non tanto sulle tasse universitarie (molto basse nella maggior parte dei paesi europei rispetto agli Stati Uniti), ma su una stima del costo opportunità. Scegliere di studiare dopo il diploma vuol dire rinunciare ad un reddito moltiplicato per un certo rischio di disoccupazione. L’investimento sta nel rinunciare a questo reddito nell’ attesa di percepirne uno più alto dopo gli studi e con un rischio di disoccupazione inferiore. I dati che utilizziamo (presi dai progetti europei HEGESCO/REFLEX) mostrano che questo costo opportunità varia da facoltà a facoltà poiché iscriversi, per esempio, a fisica richiede un maggior numero di ore sui libri e a lezione. Di conseguenza, chi si iscrive ai corsi di laurea che richiedono uno sforzo maggiore in termimi di tempo deve essere consapevole di potercela fare in tempi ragionevoli, o quanto meno avere alle spalle una sicurezza economica.

Anche se esula dal focus della nostra ricerca, è importante infine ricordare che il valore totale dell’istruzione universitaria è molto più alto di quello che stimiamo noi. Ci sono infatti i ritorni pubblici: i laureati tendono a guadagnare di più e di conseguenza a pagare più tasse. E non solo: una società più istruita tende ad ammalarsi di meno o ad avere tassi di criminalità inferiori, e quindi a gravare meno sui conti pubblici in termini di servizi sanitari e di sicurezza. Non è pertanto corretto sostenere che i laureati in filosofia siano inutili per la collettività.