L'università italiana e gli indicatori fantozziani
Innovazione e mercato
L'ingegneria salverà il mondo, ne siamo più che certi. Non nascondiamo, dopo averlo ribadito con i dati dalla nostra, che più laureati in discipline scientifiche siano necessari per ridare lustro alla nostra ricerca, alle competenze sul mercato del lavoro, per scardinare la tendenza parolaia che uccide le discussioni di politica economica del nostro paese. Ben vengano più ingegneri elettronici, informatici e dei dati.
È quindi con rammarico che leggiamo un articolo di Roars, scritto da Giuseppe De Nicolao, professore di ingegneria all'Univesità di Pavia, che cerca di avvalorare la tesi secondo la quale i nostri atenei non se la passano così male, come le molte classifiche internazionali sulla qualità delle Università tenderebbero a far credere.
L'articolo prende spunto dalla classifica di Shanghai, che vede le nostre Università distanti dalle eccellenze internazionali. La prima classificata italiana, La Sapienza, è oltre la 150ma posizione. La tesi dell'autore è che, una volta tenuto in considerazione un "indicatore di spesa per punto di classifica", sedici tra i primi venti atenei mondiali in questa contro classifica sarebbero italiani!
L'indicatore utilizzato tradisce una insufficiente conoscenza del concetto di efficienza economica, che spesso abbaglia bravissimi e stimatissimi ingegneri. Trattare i punti classifica come fossero un output, e relazionarli ai costi monetari, come fossero input, è concettualmente sbagliato. L'output di una università non sono i punti di una classifica, ma la conoscenza trasmessa agli studenti, che si traduce in salari futuri in grado di giustificare l'investimento intrapreso. Gli input tecnici sono principalmente la competenza dei professori universitari, ma anche il capitale fisico - aule strumenti tecnici etc - coordinati tramite l'organizzazione manageriale delle Università.
L'articolo di Roars, definendo in modo incorretto un indicatore di efficienza semi tecnica, dove il "semi" nasconde la confusione intrinseca di usare punteggi e input monetari in modo pedissequo, suggerisce che solo spendendo di più le nostre Università potranno aumentare il loro "prodotto". Esse soffrirebbero perciò solo di insufficienza di fondi di finanziamento pubblico, non di problemi organizzativi o di qualità dell'insegnamento.
È certamente vero che la spesa universitaria sia bassa in Italia nel confronto internazionale, sebbene una volta corretto per il basso numero di iscritti le cose siano in parte diverse di quanto appaiano a prima vista. Eppure è parecchio esilarante leggere che sedici delle prime venti università mondiali - in termini di efficienza - sarebbero tutte italiane. In un paese in cui il return to higher education è così basso, in cui la produttività del lavoro è stagnante da 20 anni, in cui la meritocrazia è assente, Roars dovrebbe spiegare se davvero pensa che i nostri atenei siano isole paradisiache di efficienza, che solo uno stato miope non finanzia adeguatamente.
Continuiamo a credere che le nostre università, e in generale le nostre scuole, soffrano principalmente di problemi organizzativi e carenza di qualità nelle attività didattiche. Non sarà certo un indicatore fantozziano a farci cambiare idea.