La Russa grande 1

L’elezione del Presidente del Senato ha aperto la XIX legislatura, ma ha dimostrato che la politica italiana è rimasta esteticamente e eticamente al tardo impero primo-repubblicano e a un’idea della vita istituzionale ridotta alla commedia degli equivoci e degli inganni.

Tutto puzza di vecchio, come del resto di vecchissimo ha puzzato in questi anni ogni tentativo di “rivoluzionare” la politica con un repertorio di ruffianerie cortigiane e di sobillazioni patriottiche, che hanno inaugurato un trasformismo di nuovo conio: non quello che promette di cambiare tutto per non cambiare niente, ma quello che garantisce di non cambiare nulla, se non i figuranti dello spettacolo, i “buoni” al posto dei “cattivi”, per sortire miracolosamente l’effetto di un’Italia diversa e migliore.

Così siamo arrivati all’ennesimo cambio di scena, all’ennesimo “salvaci tu” e ovviamente la salvatrice designata, Giorgia Meloni, non ha trovato niente di meglio che mettere alla seconda carica dello Stato Ignazio La Russa, il quale, anche al di là delle litanie sul mai rinnegato fascismo familiare e sentimentale, è un personaggio, prima di essere una persona, una maschera, prima di essere una faccia, ed è (magari pure suo malgrado) rappresentativo in primo luogo di un cliché grottesco e consunto, di un post-fascismo archeologico, di un passato che non passa e – lunga vita al Presidente, sia chiaro! – del morto che afferra il vivo.

Poi, altra cosa vecchissima, siamo arrivati all’elezione di La Russa, malgrado la defezione di Forza Italia, per via di una manovra d’aula di riconoscibilissima scuola democristiana, per cui sono naturalmente indiziati Renzi e Franceschini, ma su cui non sarà possibile sapere alcuna verità. Se non appunto quella che non si può mai sapere la verità della politica. Che è una verità velenosissima, ma che pare inorgoglire, anziché spaventare, quelli che “fanno succedere le cose”. 

La morale della favola, comunque, è che si è arrivati a eleggere alla prima votazione un presidente del Senato grazie al voto determinate di eletti di partiti (PD, SI-Verdi, M5S) che per tutta la campagna elettorale non hanno mancato di individuarlo, proprio personalmente, come un rappresentante esemplare del non metabolizzato residuo fascista della destra italiana. Ovviamente, anche in questo caso, la scelta di addebitare a Renzi l'operazione contrasta con le regole elementari dell'aritmetica.

La Russa ha preso almeno 17 voti in più del numero dei senatori della destra che hanno partecipato al voto, ammettendo e non concedendo che tutti i votanti abbiano votato per lui e che ad esempio i due voti per Calderoli, cosa molto improbabile, siano arrivati dai partiti di opposizione. I senatori della destra erano sulla carta 115. Ben 16 dei 18 senatori di FI non hanno partecipato (tutti tranne Berlusconi e Casellati). I senatori "renziani" sono 5, quelli "calendiani" sono 4, per quanto li si voglia indiziare tutti - per pregiudizio colpevolista - almeno altrettanti provenienti da altrove hanno consentito a La Russa di arrivare a 116 voti. Eppure i rappresentanti ufficiali di partiti che aritmeticamente non possono non avere avuto parte a questo giochino (PD, Verdi-Sinistra, M5S), elevano tutti grida di scandalo, accusando i "renziani". Il gioco delle ombre, il labirinto delle verità impossibili.

Siamo una democrazia délabré, insomma, e pure orgogliosa di esserlo. Che cosa mai potrebbe andarci male.