Dieci anni dopo il Whatever it takes, Draghi è l’unico vero politico rimasto in Italia
Istituzioni ed economia
Esattamente dieci anni fa oggi Mario Draghi pronunciò alla Global Investment Conference di Londra la frase che salvò la moneta unica e, in prospettiva, le sorti dell’Unione Europea, allora destabilizzata come non mai dalla crisi del debito sovrano. «La BCE è pronta a fare tutto il necessario per preservare l’euro; e credetemi, sarà sufficiente».
Si trattò dell’annuncio dell’avvio del Outright Monetary Transactions (OMT; i Paesi dell’Eurozona che avessero avuto difficoltà a collocare il proprio debito sul mercato avrebbero potuto accedere, a determinate condizionalità, a un programma di acquisto di titoli da parte della BCE) a cui seguì, due anni dopo, un ulteriore intervento “espansivo”, cioè il Quantitave Easing, suggestivamente denominato “bazooka” (un massiccio acquisto di titoli pubblici che prescinderà da qualunque condizionalità).
Al di là della “conformità formale” dei due programmi ai trattati – la Corte di Giustizia dell’Unione europea darà ragione a Draghi sulla liceità dell’OMT – siamo di fronte una svolta storica sul piano, sia detto senza enfasi, perfino “spirituale”: l’euro è una moneta nata sotto i dettami dell'ordoliberalismo tedesco e dunque con “un'anima” essenzialmente anti-inflazionistica, prima di Draghi la sola ipotesi che la BCE potesse annunciare di acquistare quantità illimitate di titoli pubblici era un tabù (tabù istituzionalmente consacrato dalla no bailout clause del trattato di Maastricht).
Il prestigio professionale di cui gode Draghi anche e soprattutto a livello internazionale deriva essenzialmente da questo, dalla rivoluzione che avviò dal penultimo piano dell’Eurotower di Francoforte.
Tanto dovrebbe bastare, oggi, perché nessuno, tra giornalisti ed esponenti politici presenzialisti, sia così intellettualmente pigro da riproporre la dicotomia (collaudata negli anni ’90 e sovra-utilizzata durante la stagione montiana e immediatamente post-montiana) tra il “tecnico” e i “politici” quale chiave di lettura della luna di miele prima e delle turbolenze culminate nella “non fiducia” poi tra l’ex banchiere e i partiti che aveva imbarcato nell’esecutivo: Draghi non è mai stato un “tecnico”, è stato un grand commis che, per sovrappiù, ha sempre politicizzato ulteriormente ruoli che già di per sé avevano natura politica (prima a Bankitalia e poi, soprattutto, come già detto, alla BCE: in particolare, durante i molteplici scontri coi falchi tedeschi e finlandesi ha dimostrato di avere doti squisitamente… politiche straordinarie).
Paradossalmente, semmai, sono i politici ad essersi completamente spoliticizzati: se da un lato, infatti, in quest’anno e mezzo è emersa la piattaforma politico-ideologica alla base delle decisioni dell’ex banchiere – saldo ancoraggio, anzi, addirittura leadership del fronte euro-atlantico e dunque adesione convinta al pantheon di valori democratico-liberali; “flessibilità metodica” nelle politiche fiscali, probabilmente ereditata dal suo maestro Federico Caffè, plastificatasi nel distinguo tra debito buono e debito cattivo ecc. – non è emersa una contro-visione altrettanto strutturata da nessuno degli “sfiducianti” né men che meno dalla monopolista dell’opposizione.
Grillini scissi e scissionisti sono nichilisti (loro dicono “post-ideologici”…) per statuto o, appunto, non-statuto che dir si voglia; Salvini e leghisti salviniani per scelta (gli ultimi arrivati) o obtorto collo (gli “amministratori virtuosi” del nord produttivista) hanno ripescato le parole d’ordine securitariste e anti-immigrazioniste e l’oggettistica cattolico-kitsch del 2018, aggiungendo al più qualche goffa spruzzatina anti-woke; Berlusconi ripropone la solita El Dorado di pensioni minime ai massimi e pressione fiscale ai minimi per poi straparlare, al solito, di valori liberali, intraprendenza imprenditoriale e tanta altra nostalgia dei primi anni ‘90; la galassia centrista annovera anche elementi dotati di visione – Matteo Renzi, registra dell’operazione Draghi, su tutti – attualmente impegnati, però, in un assai deprimente scontro fra personalismi.
Questi sono, appunto, gli ex azionisti del governo Draghi. Si può trovare una sponda nell'opposizione? Qual è il “progetto alternativo” di Giorgia Meloni? Negli ultimi quattro anni la leader di FdI si è limitata a urlare «elezioni subito!» a ogni innesco di crisi di governo, così certificando di avere fretta di capitalizzare il consenso che ha cumulato dall'opposizione, ma per far cosa? Non ha mai motivato come si deve la sua conversione anti-putiniana, lasciando trasparire che il suo è un atlantismo di convenienza; non ha mai neppure abbozzato un progetto di lungo termine che non si esaurisse negli slogan nazionalisti/autarchici da Pro Loco e un po' di cristianismo a buon mercato, il tutto declamato con una solennità e una mimica talvolta inquietanti; ma come penserebbe di approcciare, ad esempio, il problema della sostenibilità del debito? Perché si è schierata coi tassisti? Sarebbe disposta ad accettare le condizionalità che la BCE imporrebbe in caso di attacco speculativo e conseguente inevitabile accesso all’ombrello anti-spread?
Da un lato, per tirare le somme, l’ex banchiere centrale con una identità politica fortissima (ne ha dato ampia dimostrazione); dall’altro, leader… “politici” che si esibiscono in comizietti balneari dai quali emerge quanto di più antipolitico possa esserci, e cioè pigrizia ideologica, “presentismo” e demagogia.
Forse la dicotomia più adatta da utilizzare quale chiave di lettura della relazione fra Draghi e i vari leader e mezzi leader che in questi giorni affollano tg e salotti è quella fra due modi di essere italiani: quello “gesuitico” (il whatever it takes di dieci anni fa è, com’è noto, l’eco post-moderno del todo modo d’ignaziana memoria) e quello caciarone; da un lato fare torto al Weber protestante prendendosi delle responsabilità immense, si tratti di politiche monetarie espansive o della messa a terra del più grosso piano d’investimenti mai realizzato nell’Italia repubblicana, e onorandole non sacrificando bensì ricorrendo ai princìpi; dall’altro il trionfo dell’etica cettolaqualunquista dell’irresponsabilità.